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La storia di Marcella che si ribellò alla Scu.
26 anni. Tanti ne sono passati dal quel 5 aprile 1990, quando in un bosco fra Mesagne e Brindisi venne rinvenuto
il corpo martoriato di una ragazza mesagnese, molto bella, che avrebbe compiuto 26 anni il successivo 18 aprile.
Si chiamava Marcella Di Levrano, madre di una bambina ancora in tenera età, e la sua storia - per molto tempo sepolta come lo era stata lei prima di essere ritrovata nel bosco alla c.da “Lucci” - merita di essere ricordata e fatta conoscere. La sua morte orribile, stando all’autopsia venne fatta risalire ad una decina di giorni precedenti il ritrovamento del corpo straziato, con il volto sfigurato e reso del tutto irriconoscibile dai colpi infertile con un grosso masso trovato accanto.
Della sua efferata esecuzione, decisa - come appreso in seguito dai racconti di alcuni collaboratori di giustizia, ritenuti del tutto attendibili - dalla “Sacra Corona Unita”, non sono stati mai giudicati e condannati né i mandanti, né gli esecutori materiali, anche se per gli inquirenti, quella orrenda fine era sicuramente riconducibile a dinamiche di tipo mafioso, come emergeva dalle dichiarazioni rese da più collaboratori di giustizia.
Stando alle affermazioni degli stessi “pentiti”, Marcella, dopo un trascorso di tossicodipendente, frequentazioni di ambienti malavitosi e con pregiudicati appartenenti alla criminalità organizzata brindisina e salentina, aveva deciso di abbandonare quel mondo, iniziando a collaborare con le forze dell’ordine e riferire alle stesse quel che sapeva della Scu. Marcella aveva l’abitudine di annotare tutto ciò che le accadeva in un’agendina alla quale, sin dai tempi della scuola, confidava tutti i suoi pensieri e gran parte di ciò che le capitava durante la giornata. Diventò un diario minuzioso che raccontava storie di droga, di criminalità organizzata, ma anche di ripulsa di quel mondo. Non le fu dato il tempo di venirne fuori perché non appena si ebbe il semplice sospetto, fu decisa immediatamente la sua eliminazione in modo così spietato, uno degli atti più truci della storia della Sacra corona unita.
La storia e la memoria di Marcella Di Levrano sono da diversi anni coltivate dalla madre Marisa, che con orgoglio e dignità, girando le scuole d’Italia per parlare con gli studenti di Marcella e di legalità, rivendica tenacemente il proprio ruolo di mamma dopo che per troppo tempo, anche alcuni di coloro che avrebbero dovuto affiancarla, l’hanno fatta vergognare di esserlo. Fortemente sostenuta in questa sua “missione” da ‘Libera’, l’Associazione di don Ciotti, tanto che ormai da tempo, il nome di Marcella, il 21 marzo di ogni anno viene menzionato nella giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti delle mafie.
Il riconoscimento più alto e commovente dell’opera di Marisa, portata avanti senza alcun risparmio di energia, è stato quello di ritirare, in un teatro milanese di fronte ad un pubblico tutto in piedi, l’Ambrogino d’oro che la Città di Milano ha assegnato qualche anno fa a Denise Cosco, testimone di giustizia, ancora sotto scorta dopo che la madre, Lea Garofalo, venne uccisa da un’organizzazione ‘ndranghetista’ capeggiata dal marito, come recentemente visto nel film di Marco Tullio Giordana, “Lea”, con una intensa interpretazione della nostra Vanessa Scalera. L’aver voluto Denise che fosse propria la mamma di Marcella a ritirare per suo conto l’Ambrogino milanese, ha un valore simbolico il cui significato non sfugge a nessuno.
A soli tre giorni dalla presentazione a Mesagne della “Storia della sacra corona unita” di Andrea Apollonio, che ha parlato di una nuova “Primavera” per Mesagne, non vorremmo che la storia di Marcella, archiviata per la giustizia, lo fosse anche per la coscienza civile di una Città e di una comunità e sia, invece, una storia che deve necessariamente essere disseppellita dall’oblio in cui è stata avvolta per oltre due decenni. Perché è la storia di una donna orribilmente massacrata da uomini che le erano [anche] stati vicino, incapaci di tollerare il suo coraggio, la forza e la determinazione di abbandonare un mondo che non era più il suo.
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