“Padri e madri killer” di Anna Rita Pinto

Una delle notizie più forti di quest’ultima settimana riguarda la storia della piccola Elena uccisa in Sicilia

dalla sua giovane madre. Negli ultimi 20 anni sono circa 500 i figlicidi compiuti per mano di un genitore, eppure sul fenomeno non esiste ancora una banca dati. Esiste, invece, una ricerca condotta nel 2019 dall'Eures, che si occupa di ricerche economiche e sociali, dove si rileva che in Italia ogni due settimane un genitore ha ucciso un figlio, di cui circa il 60% sono maschi e il 40% femmine. La prevalenza dei casi si riscontra al Nord, circa una vittima su 5 è stata uccisa in Lombardia o in Piemonte; segue il Sud con Sicilia e Campania e infine il Centro, con Lazio ed Emilia Romagna.

La maggior parte delle vittime è di età compresa tra 0 e 5 anni, seguita dalla fascia 6-11 anni. Molti sono anche i figli maggiorenni uccisi da genitori ormai anziani incapaci di prendersi cura di loro o di sostenere le loro fragilità fisiche e mentali o dipendenze di qualche natura. Meno, invece, sono i delitti nella fascia adolescenziale.

Sempre da questa ricerca, emerge che nella maggior parte dei casi l'autore dei figlicidi è il padre ma il rapporto si capovolge completamente se prendiamo in esame la fascia 0-5 anni, quando sono le madri a risultare le autrici prevalenti. Madri con problemi di salute mentale (depressione o altro disturbo psicologico), soprattutto quando uccidono il proprio figlio nei primi giorni o mesi di vita.

A tal proposito si consiglia la visione del film del 2011 “maternity blues” diretto da Fabrizio Cattani e interpretato da Andrea Osvárt, tratto dal dramma teatrale “From Medea” di Grazia Verasani (Sironi editore, 2004). Tratto da storie vere, questo film racconta di alcune madri che stanno scontato in prigione la pena per aver compiuto il delitto peggiore: quello di aver ammazzato i loro figli. Il film non dà risposte, ma certamente aiuterà lo spettatore a comprendere il corto circuito che si crea nella mente di un genitore che compie questo gesto estremo.

Ai problemi di equilibrio mentale seguono poi i problemi nelle relazioni di coppia; la gelosia; la conflittualità tra genitori; la mancata accettazione del ruolo genitoriale.

Tra i moventi individuati e che riguardano quasi esclusivamente autori uomini, un peso rilevante lo hanno infatti i cosiddetti "omicidi del possesso". Padri che si sentono tali solo quando hanno il pieno controllo delle loro compagne-mogli madri e che vedono i figli e le figlie solo in virtù del loro rapporto con esse. In molti casi al gesto omicida segue anche la morte dell’autore del delitto, i cosiddetti "suicidi allargati", in cui i figli e spesso le mogli/ex mogli fanno parte di un piano omicida che prevede l'annientamento dell'intero nucleo familiare. Gli altri moventi sono invece legati a liti, dissapori, interessi, denaro e faide familiari.

Nei delitti compiuti dai padri, è soprattutto l’arma da fuoco ad essere stata utilizzata, seguono poi le armi da taglio e il soffocamento, che rappresenta invece la modalità principalmente utilizzata dalle madri.

A conclusione di questa triste ricerca, sarebbe utile riflettere sull’utilità di proporre mediazioni e di trovare nelle relazioni dei servizi il termine “conflitto genitoriale”, là dove fosse evidente che la violenza viene subita da solo una delle due parti.

In questi casi, forse, sarebbe importante sospendere la bigenitorialità perché una donna o un uomo geloso, stalker, minaccioso, che non accetta l’autodeterminazione personale della partner o del partner e che perpetra maltrattamenti in famiglia, non può essere un buon genitore. Quando questi uomini e queste donne si sentono proprietari della prole, è evidente che si crea una distorsione per cui il figlio diventa il nemico.

Non sappiamo se questo accadeva anche in passato, quando i genitori allevavano 10 figli in due stanze, ma forse, vista la contingenza di ciò che continuamente avviene, sarebbe saggio che quando un padre o una madre iniziano a percepire di essere incapaci a sostenere il ruolo genitoriale, provassero a vincere la vergogna dell’inadeguatezza o il pregiudizio sul fallimento e tentassero di sfondare la porta della solitudine chiedendo aiuto a voce alta. Perché le tragedie, evidentemente, non capitano solo e sempre al vicino della porta accanto.

Anna Rita Pinto

21.06.2022

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