Nuove scoperte su Mesagne nella “Rassegna storica del Mezzogiorno” (di Erika Giordano).
Da pochi giorni è in edicola, anche a Mesagne, il n. 3 della rivista diretta da Domenico Urgesi, l’ex-direttore della Biblioteca di Mesagne,
ora presidente della Società Storica di Terra d’Otranto. Nelle 344 pagine, fra gli altri articoli che parlano del Salento (e non solo), ce n’è uno che riguarda la storia di Mesagne. Ci ricorda, Urgesi, che tra la fine del 1500 e i primi anni del 1600, la classe dirigente mesagnese volle cristallizzare la propria identità nella più antica stirpe, allora conosciuta, che avesse abitato la regione salentina: i Messapi. E infatti, negli antichi documenti di quell’epoca, Mesagne viene indicata come la città Messapia.
I più famosi interpreti di quella concezione furono Epifanio Ferdinando e suo figlio Diego. Il primo scrisse un’opera intitolata “Antiqua Messapographia”, datata al 1637, che però non condusse a termine, e rimase di poche pagine (circa 160), anche perché egli morì nel 1638.
Ben più corposa fu, invece, l’opera che scrisse Diego Ferdinando, raccogliendo l’eredità storiografica del padre: 516 pagine. Anch’essa è scritta in latino, e ci è stata tramandata col titolo “Messapographia sive Historia Messapiae”, e finora non era stata mai tradotta in italiano.
Ci ha pensato Domenico Urgesi, che ormai si dedica a tempo pieno agli studi storici. Ricordiamo soltanto che negli anni scorsi si è occupato, fra l’altro, della storia del castello di Mesagne, l’anno scorso della “Storia di Mesagne” del Mannarino. Adesso si sta occupando di Diego Ferdinando, insieme al giovane studioso Francesco Scalera, come leggiamo nell’ultimo numero della citata rivista.
Ma chi era Diego Ferdinando? Era nato nel 1611 e, dopo i primi studi svolti in Mesagne, si laureò in Medicina ed esercitò questa professione in Mesagne. Nel 1639 si sposò con Margherita Geofilo; poi, nel 1648, dopo la morte della moglie, divenne sacerdote; ma continuò ad esercitare la professione. Morì nel 1662.
Diego ci ha lasciato un’opera fondamentale che ha segnato la storia di Mesagne, citata sempre, ma quasi mai veramente conosciuta. Ed è anche un’opera fondamentale per la storia del Salento, per i legami stretti che univano Mesagne non solo a Brindisi, ma anche a Lecce, Gallipoli, Galatina, Galatone, Otranto. Per Diego Ferdinando, insomma, Mesagne era, con la massima certezza, la capitale dei Messapi.
Urgesi e Scalera hanno innanzitutto trascritto le 516 pagine, che non sempre sono facilmente leggibili: teniamo conto che sono scritte in latino, ma soprattutto dalla mano di un medico… Poi, i due studiosi hanno tradotto in italiano il testo così ricostruito. Ma era proprio Diego che ha scritto quelle 516 pagine? Il lavoro è stato fatto su un manoscritto posseduto da Urgesi, il quale ne aveva già utilizzato alcuni brani proprio per la storia del castello di Mesagne e per altri brevi articoli. Dall’esame di questo manoscritto inedito e poco noto, risulta che è pieno di cancellature, correzioni, integrazioni, rimandi, fra i quali soltanto l’autore poteva raccapezzarsi. Per queste difficoltà, la trascrizione e traduzione è durata un anno e mezzo; e ora è tutto pronto per la stampa.
La datazione. A quando è databile questa Messapographia? C’è un brano preciso, nel quale si fa riferimento al ritrovamento di una antica tomba «nostris diebus repertum, anno scilicet 1655» («rinvenuta ai nostri giorni, ossia nell’anno 1655»). Per questo motivo, Urgesi la definisce codice 1655.
Tutta l’opera di Diego Ferdinando è tesa a dimostrare che Messapia era la regione salentina, che Messapia era anche il nome della città di Mesagne è che quindi essa era la capitale dei Messapi. Asse portante è soprattutto la versione mitologica dei Messapi, letta soprattutto attraverso i classici greci e latini, come Pausania, Strabone, Virgilio. Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come S. Agostino, S. Epifanio, Lattanzio. Tra gli umanisti Salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo, e anche Girolamo Marciano, citati molto spesso oltre che parafrasati. Nei loro confronti l’autore riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa; presente è Antonello Coniger, ma anche Giulio Cesare Infantino. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio. Innumerevoli i richiami a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia.
Tesi che non hanno retto alle ricerche archeologiche e storiche del novecento, ma soprattutto agli studi della Scuola di archeologia dell’Università di Lecce e dell’Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia. Tuttavia, sembrano rilevanti le tesi linguistiche; ad esempio, in un brano, Diego spiega l’etimologia della parola dialettale uttisciana. Come sappiamo, essa significa giorno infrasettimanale, ossia non festivo. Ebbene, Diego spiega (in latino ripetiamo) con un lungo ragionamento, le origini di questa parola; che, come svelano i due studiosi, è una parola di origine latina, ed ha a che fare con gli usi e costumi degli antichi mesagnesi di 2.000 anni fa. Rilevanti, anche, le notizie sul castello, sui monumenti e sulle idea religiosa di civiltà che reggeva l’ambiente culturale mesagnese in quell’epoca.
E domandiamoci: ci sono altre copie di quest’opera? Nell’articolo che stiamo citando, Urgesi ne elenca due: una nella biblioteca di Mesagne, in fotocopie; un’altra nella biblioteca “De Leo” di Brindisi. Mentre la seconda è ritenuta corrispondente quasi interamente al codice 1655, la prima è ritenuta il risultato di una mescolanza tra l’opera di Epifanio, quella di Diego, e l’aggiunta di un qualche anonimo autore del secondo Ottocento.
A dimostrazione di questo, Urgesi elenca una lunga serie di particolari, emersi dal confronto puntuale dei singoli capitoli del codice 1655 con i capitoli della copia De Leo e della “copia Granafei”. Infine, utile a chiarire la situazione è stato il fatto che Urgesi si è ricordato che la “copia Granafei”, egli testimone, fu eseguita da un originale che aveva nella filigrana la data “1855”.
Erika Giordano
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