La sovranità popolare 74 anni dopo (di Domenico Urgesi)
Sono passati 74 anni dal Referendum che sancì la fine della monarchia,
e l’avvio di un percorso democratico che, dopo un ventennio totalitario ed una lunga guerra, condusse alla Costituzione; coloro che hanno vissuto attivamente la maggior parte di questi anni non si possono sottrarre ad un minimo bilancio [Ovviamente, le considerazioni che seguono sono una mia modesta semplificazione della questione, sulla quale sono stati consumati fiumi di inchiostro].
Personalmente, senza sottovalutarne nessun altro, vedo nell’articolo 3 della Costituzione Repubblicana uno dei frutti più importanti della Resistenza e del Referendum Repubblicano del 2 Giugno ’46. Questo articolo mi pare il punto di raccordo tra i principi Costituzionali basilari, quelli che riconoscono il ruolo dei partiti, delle associazioni, della cittadinanza, ossia le “formazioni sociali” e i “corpi intermedi”; ed è legato indissolubilmente al secondo comma dell’art. 1, il quale recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Ma vediamo l’art. 3. Esso nacque da una proposta iniziale di Lelio Basso, che lo illustrò nella versione definitiva all’Assembea Costituente, nel marzo del 1947. Lo richiamo, per comodità.
Primo comma: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.
L’art. 3 tocca l’essenza del sistema socio-economico nel quale viviamo, attraverso due aspetti fondamentali: uno di carattere filosofico, e l’altro di tipo pratico; ma impone, anche, di porre i cittadini nella condizione di esercitare la sovranità dichiarata nell’art. 1.
Sorvolando sugli aspetti filosofici (non secondari), per semplicità voglio richiamare l’attenzione su quelli pratici: come si possono rimuovere quegli ostacoli di ordine economico e sociale, così bene enunciati dall’art. 3, che limitano la libertà, l’eguaglianza, e – soprattutto – la sovranità popolare?
1- Abbozzo una risposta, facendo appello ad un mio ricordo personale… della fine degli anni ’60 (la data precisa mi sfugge; ma, comunque, 50 anni fa). Ricordo una grande assemblea nell’aula magna dell’Università di Lecce; era stracolma di gente, studenti anzitutto, ma anche lavoratori, e sindacalisti che rappresentavano operai e contadini. Il nome di richiamo era Lelio Basso, uno dei Costituenti, noto nel Salento per aver difeso i contadini dell’Arneo nel processo fatto a loro carico (e che aveva vinto). Svolse un discorso memorabile sull’art. 3 della Costituzione; erano presenti tutte le componenti della sinistra: comunisti, socialisti, movimento studentesco, extraparlamentari. Applaudivamo tutti, qualche mormorio si levò soltanto verso alcune presenze dei politici (in particolare PSI) che si barcamenavano tra partecipazione al governo nazionale di alleanza con la DC e contestazione ai governi centristi locali.
Nei miei ricordi, Lelio Basso rivendicò anzitutto il merito di avere proposto nel 1946, e infine nel ’47 formulato, l’art. 3. Poi sottolineò che «la nostra Costituzione Repubblicana rappresenta il superamento dell’individualismo ottocentesco e l’incontro tra i più antichi motivi della civiltà cristiana, le più vive esigenze della democrazia e le più profonde aspirazioni del movimento socialista». Non erano parole vuote: era stata quell’alleanza che aveva sconfitto il fascismo. E aggiunse, fra l’altro, come ho ritrovato nei suoi scritti:
«… Ma maggiormente innovativo fu il primo capoverso dell’art. 3, considerato da molti giuristi come la norma fondamentale della Costituzione e da altri come una semplice affermazione senza valore. Ricordo, per i lettori non giuristi, che il primo comma di quello stesso articolo ripete una norma standard di tutte le costituzioni sull’eguaglianza dei cittadini. Siamo qui, è chiaro, in presenza di una eguaglianza puramente formale: la legge rimane eguale per tutti, ma la sua applicazione è diversa, perché la società è composta di persone disuguali. C’è forse la stessa libertà di stampa per il multimiliardario che può fare il “suo” giornale, e la libertà dei comuni mortali? L’esperienza ci mostra che anche in carcere c’è una profonda differenza di trattamento fra l’imputato comune, ancor oggi soggetto a maltrattamenti, e il Generale che invece è portato in infermeria e viene rapidamente scarcerato. Nonostante la conclamata uguaglianza di diritto, i cittadini sono ben lungi dal fruire di diritti uguali.
Ed ecco allora il senso del secondo comma dello stesso art. 3 da me introdotto: […] Messo immediatamente di seguito al primo, questo comma ha un netto significato polemico: la Costituzione stessa riconosce che un principio fondamentale, come quello dell’eguaglianza, non è e non sarà rispettato in Italia finché non muteranno radicalmente le condizioni economiche e sociali. Ma la stessa polemica si rivolge, può dirsi, contro tutta la Costituzione: nessuna libertà è effettiva finché sussistono le attuali condizioni; il voto dei cittadini non è uguale finché perdurano ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini; la stessa sovranità popolare, base della democrazia, è un’illusione se non tutti i lavoratori possono partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Da ciò discende un’altra conseguenza importante. L’ordine giuridico è stato sempre edificato a difesa dell’ordine sociale, per impedire o punire i tentativi di modificarlo; ora, per la prima volta, abbiamo nell’ordinamento giuridico una norma che condanna l’ordine sociale esistente e impone allo Stato di correggerlo …». Era una potente visione programmatica del futuro.
2- Nel discorso di Basso c’era la legittimazione giuridica della passione politica e ideologica contro i favoritismi, i privilegi, le caste. Nell’art. 3, i Padri Costituenti avevano consacrato il giusto equilibrio tra le esigenze ideali di una rivoluzione totale e l’azione quotidiana del “giorno per giorno”. L’art. 3 legittimava la necessità di affiancare al corpo istituzionale quello concreto della base, della società reale organizzata in maniera tale da avere un peso. Era l’idea Gramsciana dei consigli di fabbrica, e di quartiere; era la traduzione italiana dei primi soviet russi, quelli che non erano subordinati al partito. Basso mi convinse che quella era la rivoluzione possibile in Italia. In maniera del tutto indipendente, in quel periodo, la stessa convinzione prese corpo in una miriade di persone, a volte non pienamente consapevoli, come non lo ero nemmeno io: ci bastava aver capito i principi basilari. E così, per tutti noi, quei principi furono la molla per le conquiste politiche e sociali conseguite tra gli anni ’70 e ‘80: statuto dei lavoratori, parità uomo-donna, ecc.
Ci fu per un ventennio un grande movimento, una grande speranza, fondata su tutta una serie di presupposti che condussero, sia pur lentamente, al governo delle sinistre, sia a livello nazionale che locale. A Mesagne arrivò la stagione dei governi di sinistra e centro-sinistra, che in pochi anni cambiò il volto della città. Diedi anch’io il mio contributo. Solo per ricordare qualcosa che realizzammo: non c’era una biblioteca, la facemmo; il museo era ancora di tipo “antiquario”, lo aggiornammo; mancava una coerente e continua attività culturale: la inventammo. Istituimmo le ricorrenze storiche: sul 25 aprile, il 2 giugno, la shoah, le foibe; costruimmo una collaborazione stabile con le scuole.
E, dal punto di vista più ampio, fu restaurato il castello, e restituito alla città. Fu restaurato il teatro comunale, il centro storico, la chiesa matrice… Si tennero assemblee cittadine in piazza IV novembre, nel castello, nel teatro. Formidabili quegli anni! Fu, però, una breve stagione che non seppe dare continuità alla presenza nelle istituzioni con quella nel corpo vivo della società, in altre parole non seppe coniugare il governo del “giorno per giorno” alle prospettive di più lunga durata.
Nel lento sfiorire di quel periodo, le spinte politiche e sociali alla trasformazione dell’Italia vennero meno, sul finire del secolo scorso, all’alba del nuovo secolo, anni sui quali sarebbe necessario riflettere approfonditamente (cosa che purtroppo non è stata fatta): fu il muro di Berlino? il crollo dell’URSS? la globalizzazione? la fine delle ideologie? la vittoria del neo-liberismo? Si è capito perché presero forza le spinte antidemocratiche, anticristiane, antisocialiste? Quelle che erano state sconfitte dalla resistenza e che erano esplicitamente combattute dalla Costituzione? Ma era proprio necessario “cedere armi e bagagli” alla cosiddetta “razionalità” del sistema dato?
Si è capita la facilità con cui il berlusconismo, e poi il grillismo, e poi il salvinismo, ebbero buon gioco a far passare la sinistra come “casta, quelli che stanno al governo, lassù, che rubano lo stipendio nel parlamento, che scaldano le poltrone”? Che difendono, in sintesi, lo stato esistente? Oggi ci troviamo a fare i conti con questa lettura della realtà (è stata messa tra parentesi dall’emergenza sanitaria, ma è molto diffusa, non è solo propaganda), nella quale sguazza la propaganda neo-fascista.
Oggi, rispetto a 50 anni fa, ma anche rispetto a 20-25 anni fa, siamo immersi in un’atmosfera in cui la logica del potere, con i suoi cantori, tende a mettere all’angolo i corpi intermedi, ossia il “popolo” reale, a vantaggio di un “popolo” evocato propagandisticamente a parole. Operazione alla quale, purtroppo, si prestò esplicitamente la stagione Renziana, con lo scopo elettorale di intercettare il malcontento contro le caste. Il risultato è stato, se vogliamo ridurre all’osso, proprio l’oscuramento dell’art. 3. Fu il tragico errore di voler condurre tale battaglia nelle istituzioni, rompendo il rapporto con il corpo vivo della società (e forse, oggi comprendiamo meglio quelle mosse). Fu il tradimento dello spirito dell’art. 3, quello contro le caste, le clientele, le raccomandazioni, e i giochi di potere, le lobby, l’uso del potere pubblico per scopi personali, i favoritismi, i privilegi.
L’antidoto alle spinte antidemocratiche, anticristiane, antisocialiste sta nel ritorno al popolo, alla partecipazione popolare, nello spirito della Costituzione. E questo è ancora più urgente, se pensiamo allo sconvolgimento che produrrà il coronavirus; non credo di esagerare se prevedo che ci sarà un aumento generalizzato dell’automazione e dell’informatica in tutte le attività socio-economiche, con gravi ricadute sul piano della disoccupazione e dell’interazione politica, con un aumento del verticismo, ecc. Bisogna prepararsi a contrastare questi effetti deleteri. Invece di concentrare l’attenzione sul come fare le prossime vacanze, come andare in Grecia, come andare al mare, ecc.
Occorre una visione del futuro, al di là dell’emergenza sanitaria. Specie adesso che stiamo uscendo da un breve periodo in cui la competenza degli scienziati (quella vera) aveva stretto una embrionale alleanza con la politica. Tra un po’, vedrete, diranno che quelle degli scienziati erano tutte “magagne”: già stanno riprendendo fiato i propagandisti contro i vaccini! L’antidoto contro il virus del falso populismo sta lì, nell’art. 1 e nell’art. 3, nel loro secondo comma. Bisogna attuarli!
(Domenico Urgesi)