Il 16 agosto di 500 anni fa, i Carmelitani furono chiamati a Mesagne (di Domenico Urgesi)

Il 16 agosto 1520, il Cappellano frate Antonio Russo aveva rinunciato al beneficio che aveva sulla chiesa di S. Michele Arcangelo di Mesagne,

che da molti anni giaceva abbandonata, quasi in rovina, tanto che non vi venivano celebrati con regolarità i riti religiosi; nello stesso tempo, aveva deciso di donarlo, preferibilmente, ai Carmelitani. Anche tra i maggiorenti del paese si era fatta strada l’idea di affidare la chiesa di S. Michele ai padri Carmelitani, che venivano così ad aggiungersi ai Celestini ed ai Francescani. E, poiché la chiesa faceva parte di un’abbazia, la quale era di pertinenza regia, l’ultima parola spettava al possessore del Regno di Napoli, che era l’imperatore Carlo V.

Pertanto, nello stesso 16 agosto 1520, subito dopo l’elezione avvenuta il giorno prima, il Sindaco Giacomo Resta e gli eletti dell’Universitas (equivalenti ai nostri consiglieri comunali) deliberarono di chiedere a Carlo V di cedere l’abazia ai padri Carmelitani; e, per il loro sostentamento, si impegnarono a concedere ai frati, per dieci anni, il dazio sulla vendita del pane. Questo, qui riassunto in breve, ci dicono alcuni atti rogati dal notaio Vincenzo de Melioribus alias Megliore.

Veniva, così, a conclusione una iniziativa di cui non conosciamo le più recondite motivazioni, né i contorni particolari, della quale sappiamo soltanto che erano stati presi contatti con i superiori dell’Ordine Carmelitano, il provinciale della Puglia, frate Giovanni Battista de Marenonibus (oppure Marenenibus) da Milano, e il priore del convento di Bari, frate Giuliano Layta da Bari (ancora negli atti del notaio Vincenzo Megliore).

Non possiamo, però, tacere che nello stesso anno 1520, come scriveva Diego Ferdinando nella Historia Messapiae, Mesagne era governata da Luigi Carroz de Villaragut, che era plenipotenziario di Carlo V, dal quale aveva avuto l’incarico di preparare l’alienazione del feudo di Mesagne dai possedimenti reali. In altre parole, Carlo V aveva bisogno di molto denaro per le sue operazioni militari condotte in tutta Europa ed oltremare; perciò, attivò una politica finanziaria di vendita ai privati, finanzieri-imprenditori specialmente genovesi (quali i Doria, gli Spinola, etc), cortigiani, o propri generali, di varie città demaniali, tra cui – per esempio – anche Francavilla Fontana ai genovesi Imperiale.

Il Carroz si adoperò molto per tranquillizzare la piccola cittadina; e proprio nel 1520 riuscì a riappacificare – dopo che vi erano state annose ed aspre contese – i due ceti dei nobili e dei popolani, con uno Istrumento di Concordia di importanza memorabile, come scriveva ancora nel 1655 il citato Diego Ferdinando. Il documento in questione, che è conservato presso la Biblioteca Comunale di Mesagne, rappresenta una formidabile testimonianza dell’identità religiosa e civile dei Mesagnesi in epoca spagnola.

La vendita di Mesagne fu perfezionata nel 1522: il feudo fu ceduto ad Alfonso Beltramo, condottiero al servizio di Carlo V, per un prezzo di favore di appena 28.000 ducati. Così dice Diego Ferdinando, il quale si spiega in questo modo il fatto che nel 1591, nella vendita di Mesagne alla famiglia del mercante lombardo Giovanni Antonio Albricci, lo stesso feudo era stato apprezzato molto di più: 105.000 ducati.

La gestazione iniziale della venuta dei Carmelitani a Mesagne fu abbastanza veloce, poiché l’otto gennaio 1521 il viceré Ramon de Cardona comunicò l’assenso dato dall’imperatore. Tuttavia, la questione andò poi per le lunghe, poiché della consegna effettiva il predetto notaio Megliore ne parla ancora nell’ottobre del 1530, mentre il consenso dell’Arcivescovo Geronimo Aleandro fu dato il 22 marzo del 1531. Sempre il Megliore ci informa che il primo priore carmelitano fu il brindisino Nicola Prescia; la stessa cosa riferisce Cataldantonio Mannarino nella sua frammentaria Storia di Mesagne, aggiungendo che al Prescia succedette il teologo mesagnese Francesco Vita, sul quale Antonio Profilo aggiunge che partecipò al concilio di Trento e che fu Provinciale della Provincia Carmelitana di Apulia.

La chiesa di S. Angelo, pervenuta finalmente in possesso dei Carmelitani, fu restaurata al tempo del loro insediamento (grazie anche alle donazioni ricevute dalla famiglia Maia) e da quel momento la sua struttura architettonica rimase sostanzialmente la stessa, salvo l’allestimento degli altari barocchi nella metà del Seicento e le modifiche eseguite nella seconda metà dell’Ottocento.

I religiosi pensarono quindi di dotare la chiesa di un quadro raffigurante la Madonna del Carmelo; chiamarono perciò, in data ignota, ma presumibilmente attorno al 1540, il pittore Francesco Palvisino da Putignano, che lo realizzò in poco tempo. Forse aveva un modello, come la Madonna di Costantinopoli dipinta nella cattedrale di Acquaviva delle Fonti, ma forse fu quest’ultima ad essere dipinta dopo la Madonna del Carmine di Mesagne; mancano documenti risolutivi. Comunque sia, il Palvisino, pretendendo una somma più alta rispetto a quella già concordata con i religiosi, pensò di portarsi via il quadro ligneo che aveva realizzato. Tuttavia, per un prodigio sovrumano, come narra la tradizione religiosa, egli non riuscì a varcare la soglia della chiesa dalla quale voleva uscire con la tavola dipinta. Come narra la leggenda, ci riuscì soltanto quando lasciò il quadro all’interno della chiesa.                                         

(Domenico Urgesi)

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