Diego Ferdinando e la sua mesagnesità. Terza parte (di Domenico Urgesi)

[Pubblichiamo altri brani estratti dalla Introduzione di D. Urgesi all’opera di Diego Ferdinando,

Messapografia ovvero Historia di Mesagne [1655] = Messapographia sive Historia Messapiae, Lecce, Società Storica di Terra d’Otranto, 2020. Il volume è in vendita nelle principali librerie di Mesagne].

[…]

Il contenuto dell’opera

Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.

Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa [Scalera]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.

Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì [Campennì], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia [Lerra]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.

In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.

Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600. Con l’insistenza sui Messapi, anzi, si profila quasi una nostalgia della “nazione messapica”, la cui fierezza – nella sua visione – sembra sopravvivere nella fedeltà politica dei Messapij Cives alla Monarchia, nella loro fedeltà religiosa al Santo Martire, e perfino nelle consuetudini politico-religiose unanimemente accettate (vedi lo Strumento di Concordia). Sembra che Diego le contrapponga all’instabilità, politica e sociale, degli ultimi anni del dominio aragonese e dei primi aspri decenni cinquecenteschi del conflitto franco-spagnolo per il dominio sul Regno di Napoli.

Il Ferdinando riferisce anche sporadici rinvenimenti di monete messapiche, romane, etc., e di varie monete angioine ritrovate durante i lavori di rifacimento della chiesa matrice. Non pago delle antichità messapiche, negli ultimi due capitoli (I e II del pre-annunciato Libro V), Diego si richiama all’autorevolezza delle epigrafi di età romana imperiale. I due capitoli sulle sepolture e sulle iscrizioni rappresentano, dal punto di vista archeologico, le informazioni più importanti, poiché ci raccontano fatti testimoniati più o meno direttamente da Diego e non alterati dalle fonti letterarie classiche a lui congeniali. Ragionando sul ritrovamento fortuito di alcuni corredi tombali, Diego ce ne dà una sommaria descrizione e si sofferma sulle usanze funebri degli antichi Romani, con un accenno alle feste “parentalie”, legate all’usanza del “consòlo”, il “pasto funebre” che implicitamente egli ci fa capire vigente ai suoi tempi (e, come sappiamo, lo era ancora fino a pochi decenni fa). Per la verità, le considerazioni di Diego sarebbero state più interessanti se ci avessero tramandato qualche specifico dettaglio su come si svolgevano quelle usanze al suo tempo; ma per lui, forse, soffermarsi su quei particolari era superfluo, ai fini del suo discorso; né ci si può aspettare da lui la sensibilità antropologica o folklorica che sarà sviluppata nell’Ottocento.

Ci dà notizia anche di due monete di età romana, ritrovate in due tombe distinte, e ne fornisce la sua interpretazione, facendone risalire il motivo all’uso pagano di porre una moneta sulla bocca del defunto, allo scopo di garantirgli l’obolo da dare a Caronte per l’accesso all’Ade.

Ci fornisce altri elementi utili con le descrizioni di alcune epigrafi e cippi miliari, di cui ci testimonia il luogo del ritrovamento: il tempietto di S. Lorenzo, la porta Grande, il centro storico (nei pressi dell’attuale chiesa matrice), nei pressi di quello che egli chiama “quadrivio” (alle spalle dell’attuale ingresso alla chiesa di S. Maria in Bethleem), nei pressi della chiesa di S. Maria delle Grazie, del convento dei Cappuccini, dell’antico cenobio dei Celestini.

Bisogna, però, aggiungere e sottolineare che la storia cittadina di Diego (pur circolata soltanto in una ristretta cerchia, non essendo stata mai pubblicata) si inquadra nella reazione al nuovo feudalesimo cinquecentesco, al quale era necessario opporre il richiamo, e il rispetto, degli antichi privilegi regali concessi in epoca angioina e aragonese. Ma il nostro rifugge, anche, da qualsiasi venatura di anti-spagnolismo, limitandosi a ricordare e rivendicare (seppur virtualmente) ai dominatori Vicereali del suo tempo, nonché ai nuovi feudatari, gli antichi diritti acquisiti. Da questo punto di vista, non cambia il quadro tra Mannarino e il Ferdinando, pur nascendo da impostazioni ideologiche del tutto differenti. Diversamente dal Mannarino, il ragionamento di Diego si sforza di procedere dal particolare al generale: affronta analiticamente i vari periodi storici, ovviamente sulla base delle fonti e degli studi conosciuti ai suoi tempi, quasi tutti aggiornati. L’unica somiglianza con Mannarino, oltre alla comune confluenza teologica in S. Agostino, la si trova nell’uso della mitologia, utilizzata per suffragare e consolidare le proprie tesi: come per Mannarino, anche per Diego la mitologia greco-romana contribuisce alla grandezza della teologia cristiana. Sarebbe errato, quanto presuntuoso, cercare in Diego una storiografia moderna, nel senso dell’analisi critica comparativa, filologica e tecnica delle fonti. Salvo qualche fugace incursione nella numismatica e nell’epigrafia, l’archeologia ferdinandiana è, etimologicamente, un general-generico “discorso sulle antiche origini”, benché fondato saldamente sulla letteratura storiografica nota e accreditata ai suoi tempi; e sappiamo che l’archeologia è divenuta disciplina soltanto da un paio di secoli, e scienza solo nel 20° secolo.

Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia. Altra differenza: per quanto conosciamo del manoscritto del Mannarino (essendo codesto mutilo), Diego, rispetto a lui, è più attento agli aspetti giuridici, di cui definisce – purtroppo solo in alcuni sprazzi – i dati archivistici, gli articoli, le clausole, sulla base dei documenti di antica data. Diego li elenca, pur senza la puntualità che un giurista avrebbe avuto, e sottolinea i privilegi e le esenzioni di cui godevano i cittadini di Mesagne; anche se, bisogna riconoscere, non sempre alla sua narrazione corrisponde la precisione e la completezza che agli studi odierni sarebbe stata di grande utilità (ma probabilmente, per lui, si trattava di considerazioni di carattere qualitativo e non amministrativo o causidico). La stessa imprecisione (aggravata probabilmente dallo stile “torrenziale” di questo autore) ricorre anche nelle successioni feudali, come in quelle dinastiche, a volte sin troppo meticolose, altre volte appena abborracciate e confuse.

Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi [vedi, almeno, Visceglia]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato [vedi, almeno, greco].

L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.

 (vedremo, nella prossima puntata, la rilevanza di S. Eleuterio)

Riferimenti bibliografici

- Campennì = F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004.

- Greco = Luigi Greco, Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano, Schena, 2000.

- Lerra = Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna (a cura di Antonio Lerra), Manduria, Lacaita, 2004.

- Scalera = F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando (in corso di stampa).

- Visceglia = M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1988.

 

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