L'anno che verrà... (di Vito De Guido)
Stiamo vivendo le festività natalizie in una condizione quasi surreale, in regime di restrizioni dettate dall’emergenza Covid 19.
Rimaniamo sospesi rispetto alla piena libertà di esistere, e questo ci dovrebbe indurre a qualche riflessione più profonda. A me, ormai “stagionato” uomo del secolo scorso, avvezzo ai ricordi del passato, vengono in mente nel periodo del Santo Natale, le riunioni attorno al focolare domestico dove le famiglie, senza alcuna contaminazione esterna, scambiavano i propri pensieri, in un’atmosfera di rara purezza.
Anche se non più di moda nel terzo millennio, la famosa conversazione al caminetto non è, come la così detta colazione di lavoro, una trovata del presidente degli Stati Uniti né di coloro che ne imitavano la metodica, per così dire, affettuosa del potere, ma è una esigenza di caldo raccoglimento, ben diversa da quella estiva che disperde all’aria libera, pensieri e parole. Si ripropone cioè sempre il bisogno della vicinanza, della contiguità come dell’unica condizione offerta agli uomini per vivere, sentire l’afflato reciproco dei sentimenti. Il camino è per ciò un simbolo più che un sito, di cui abbiamo in un certo senso sempre sperimentato la vivezza nel passato che sembra, ormai, così lontano nel tempo. Non è il linguaggio solamente che dovrebbe accomunare gli uomini, perché, dopo tutto, il linguaggio è legato al tempo, ma quel che dovrebbe rendere ineffabile la vicinanza, sovrasta di gran lunga il reale.
Tutto questo è lontano dalle consuetudini attuali dettate dall’uso smodato dei nuovi mezzi di comunicazione, soprattutto da parte dei nostri figli, che alimentano il divario intimamente umano con la famiglia, con gli amici.
Il gravoso mestiere di genitori dovrebbe sempre preservare il senso dell’intatto, riservando sui figli una visione di inviolabilità, in ascolto sempre delle loro vite; e più che trasmettere il carico delle loro esperienze sostenere, con grande determinazione, la loro sicurezza interiore. Ecco quello che dà animo ai genitori: vedere i figli diventare adulti, non tanto di calendario quanto e sopra tutto di vigore spirituale, con cui si viene a capo di ogni cosa.
Questa terribile pandemia che impregna le nostre esistenze sotto ogni aspetto, impone un bisogno imprescindibile, quello di riportare il cuore al centro della vita di ciascuno, più che la mente; e per fortuna, in questi lunghi, faticosi mesi di questo annus horribilis, abbiamo assistito a un tripudio di slanci di smisurata generosità in ogni contesto sociale, e questo rincuora tantissimo.
L’approccio alla competizione, all’avere più che all’essere, alla mercificazione di tutto, alla rincorsa del profitto ad ogni costo, alla concorrenza, che vengono sovente, anche solo con un semplice esempio, riversati ai nostri figli sin dalla tenera età, è uno sbiadito congegno che induce al disincanto.
Tiziano Terzani, da par suo, diceva: “....io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice ed è contento, accontentarsi. Uno che si accontenta è un uomo felice! Perché questo sistema fondato sulla crescita dei desideri, c’è sempre un desiderio che per te è irraggiungibile, rende tutti infelici”.
Con l’auspicio che il nuovo sia un annus mirabilis, mi piace rivolgere a tutti, ma soprattutto ai giovani, un augurio autentico: la parabola del seminatore è il racconto della fiducia incondizionata nelle energie della buona terra. E’ in virtù di questa sicurezza che io mi aspetto quel che il manzoniano padre Macario si attendeva dalla pianta: “quest’anno la farà più noci che foglie!” Che cosa ne sappiamo, in fondo, noi delle riposte forze dell’animo umano? Il nostro compito è solo quello di sollecitarle, di promuovere, come si esprimeva Orazio, vim insitam, di sviluppare le disposizioni naturali.
N.B. Nella prima foto è riprodotto il dipinto “Girotondo attorno all’albero di Natale” di Viggo Johansen.