Governabilità e partecipazione (di Carmelo Molfetta)
Meglio regalati oppure conquistati con la contrattazione sindacale ?
La domanda, oltre che di estrema attualità, è riferita ad un argomento molto dibattuto, ed oggi, depurato da ogni posizione ideologica, può essere affrontato con un certo distacco.
Da tradizionale popolo perennemente in mezzo al guado, è spuntata la terza via: intanto li prendo gli 80 €uro, poi ne riparliamo.
Anche i grandi dottori dell’economia, i soloni premi nobel che non ne indovinano mai una, si sono divisi tra quelli che ne sottolineavano l’indubbio beneficio che quella elargizione – uso il termine senza alcuna connotazione negativa – avrebbe provocato sui consumi (puntualmente smentita dagli ultimi dati ISTAT pubblicati), e quelli che nella operazione hanno intravisto un attacco al sindacato.
Depotenziare il ruolo del sindacato di fronte a milioni di lavoratori che aspettano il rinnovo dei propri contratti da anni, ove questo fosse stato il reale obiettivo politico, sarebbe stato in verità una vittoria di Pirro.
Senza tensione sociale, senza capacità rivendicativa, una nazione, infatti, sarebbe esposta ad un abbassamento del livello di guardia dell’attenzione vigile, non solo sui temi economici e salariali, esponendo tutti a rischi di pericolose avventure o avventurieri.
Si è passati quindi, da quando i lavoratori, sotto qualunque bandiera militassero, costituivano una trincea invalicabile a difesa della democrazia, ad oggi che si vorrebbero considerare merce di acquisto di consenso elettorale.
Un bel triplo e mezzo salto mortale carpiato con avvitamento: all’indietro!
Il tema è di quelli ad altissimo tasso di sensibilità.
I sindacati, come i partiti politici, sono alle prese con radicali processi (ri)fondativi.
Ruoli, funzioni, compiti e organizzazione del sindacato sono sottoposti a verifiche quotidiane ed è ormai “cosa cognita” (Camilleri) che chi non si adeguerà rimarrà fuori dal giogo democratico.
Ma il punto è proprio qui: questo processo rifondativo deve avvenire in modo coercitivo, imposto dall’alto, sacrificando sull’altare della governabilità ogni forma di partecipazione al processo decisionale, oppure mediante un processo di confronto dialettico, democratico e quindi condiviso.
Inseguire la “governabilità” non solo quella politico-istituzionale – come fatto aprioristico in sé considerato, risolve solo una parte del problema.
Il tiranno, infatti, non ha di questi problemi.
Gli storici (Canfora) ricordano le ansie di Demostene che invidiava Filippo il Macedone il quale governava e decideva da solo, mentre egli era costretto a seguire le lungaggini e le contestazioni dell’assemblea.
Ma una volta che si è scelta la via della democrazia e, soprattutto, quando ciò è avvenuto dopo la lunga, dolorosa, drammatica esperienza totalitaria del fascismo – chi ricorda che uno dei primi atti del fascismo fu la chiusura delle camere del lavoro – la strada del confronto dialettico è ineluttabile ed inevitabile, sia che si tratti del rinnovo dei contratti di milioni di lavoratori, sia che si discuta dello statuto dei diritti dei lavoratori, che, voglio ricordarlo, in realtà si intitola “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e della attività sindacale nei luoghi di lavoro, e norme sul collocamento”. (Un poco démodé ma questo è il vero titolo della legge del cosiddetto “Statuto dei diritti dei lavoratori”).
Se poi in discussione è addirittura la modifica della Costituzione, il confronto sui temi fondanti, in primis il bilanciamento dei poteri dello Stato, la partecipazione democratica ha carattere costitutivo.
Tuttavia, a ben ragione, l’opinione pubblica in Italia, che vede una Politica ancora asserragliata nel proprio fortilizio, giudica abbastanza positivamente la capacità di decidere.
Finalmente qualcuno decide!.
Non solo decide, ma lo fa anche velocemente: il massimo delle aspettative della pubblica opinione.
Ma questo non sempre è un fatto positivo.
Il rapporto tra potere decisionale e consenso passa attraverso il filtro del confronto delle idee; non può essere il frutto dell’esercizio del mero rapporto di forza, o, peggio degli effetti della detenzione dei poteri rivenienti dall’essere maggioranza.
Per tanti motivi, ma soprattutto perché la maggioranza, come dice Pasolini, “sempre instaura un conformismo”, e questo, quale che sia la sua origine, tende a considerare il confronto un accidente fastidioso da eliminare.
Non solo.
Siccome la discussione in Parlamento avrà bisogno di almeno cinque passaggi parlamentari, quelle saranno le occasioni propizie perché il dibattito sulle riforme costituzionali acquisti i connotati di un confronto ampio, democratico, di merito e, soprattutto esplicativo delle ragioni delle scelte operate.
Onere della Politica sarà quello di coinvolgere in questo dibattito l’intero Paese, altrimenti quando verrà il momento del referendum, le posizioni saranno quelle stigmatizzate tra chi vuole le riforme e chi vuole che nulla cambi.
E questo sarebbe un torto per chi le riforme davvero le vuole e chi in quelle riforme vuole avere voce.
Carmelo Molfetta