Una recensione alla Messapographia di Diego Ferdinando.
Diego Ferdinando, morendo nel 1662 all’età di 51 anni, lasciò inedito un corposo manoscritto al quale si sono ispirati,
nei secoli, numerosi studiosi: la Messapographia sive Historia Messapiae. Nel 2020 l’opera è stata pubblicata (titolo: Messapografia ovvero Historia di Mesagne) con Testo latino e traduzione a fronte, a cura di Domenico Urgesi e Francesco Scalera per la Società Storica di Terra d’Otranto.
Nella «Rassegna storica del Mezzogiorno» n. 5, sono state pubblicate delle interessanti considerazioni sull’opera del Ferdinando, da parte dell’illustre studioso Domenico Defilippis, già docente all’Università di Bari. Ci sembra opportuno proporre ai nostri lettori questa recensione.
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L’edizione della Messapografia ovvero Historia di Mesagne di Diego Ferdinando, promossa dalla Società Storica di Terra d’Otranto, si inserisce in un attivo piano editoriale teso al recupero e alla pubblicazione di testi attinenti alla realtà storico-geografica dell’estremo lembo della Penisola pugliese, come opportunamente sottolineano Mario Cazzato, Mario Lombardo e Antonio Matarrelli nel presentare il volume. L’opera costituisce un prezioso contributo non solo per la conoscenza della città salentina, ma anche per l’esplorazione di quel genere che fece registrare una straordinaria diffusione a partire dal secondo Cinquecento per giungere, con alterne fortune, fino ai nostri giorni: le storie di città.
Particolarmente importante si rivela questo ulteriore tassello documentario e testimoniale, rimasto finora inedito, per l’affermazione di tale genere nel Salento tra Cinque e Seicento, dopo l’indiscusso successo locale, ma altresì nazionale e sovranazionale, del De situ Iapygiae del galatonese Antonio De Ferrariis, la cui opera, peraltro dedicata a un influente esponente del partito filoaragonese di Napoli della prima età viceregnale (1509), non solo circolò ampiamente e per lungo tempo in forma manoscritta tra gli eruditi della regione, ma, grazie alle amorevoli cure dell’oritano Giovanni Bernardino Bonifacio, a metà del XVI secolo beneficiò di una elegante edizione postuma apparsa a Basilea. Il Galateo, pur muovendo da una diversa angolazione, quella di più ampio raggio, e per così dire onnicomprensiva, del corografo, offrì tuttavia un testo modellizzante per chi avesse voluto in seguito cimentarsi con la narrazione delle vicende dei luoghi dell’estrema penisola pugliese. Ne sono ineludibile prova i numerosissimi testi, a stampa e manoscritti, prodotti da letterati ed eruditi salentini che Domenico Urgesi cita nella sua pregevole Introduzione, in quanto fonti o semplicemente in quanto opere da porre a confronto con la Messapographia perché frutto della stessa area geografica e della medesima temperie culturale. Una temperie culturale che vede gli autori più ligi al dettato umanistico servirsi, sull’esempio galateano e di una tradizione alta e dotta, della lingua latina, e altri invece, aderendo all’innovativo modello introdotto dalla Descrittione di tutta Italia del domenicano Leandro Alberti, dell’ormai accettato, fiorente e demotico volgare toscano. Eppure, come ben nota il curatore, il ricercato affastellamento di immagini e di periodi complicatamente tra loro intrecciati nel susseguirsi delle subordinate, proprio dello stile barocco, ovunque visibile nelle cittadine del Salento a livello artistico, non manca di contaminare anche la scrittura latina ed ecco quindi che il lineare dettato galateano, estremamente elegante nella piacevole efficacia della sua scorrevolezza, retaggio degli antichi corografi, oltre che di una consolidata tradizione quattrocentesca, migra verso uno spaesante andamento diegetico, che lascerebbe attonito il moderno lettore, fin forse a distoglierlo dal proseguire nell’improba impresa di accostarsi alla Messapographia, se non gli venisse in soccorso l’agile, perspicua e pertinente traduzione italiana posta a fronte del testo latino ed egregiamente condotta, tra mille difficoltà interpretative, da Urgesi e Francesco Scalera. Impegno non indifferente ha anche richiesto l’analisi grafica della scrittura del manoscritto scelto per l’edizione dell’opera, tra quanti, non sempre completi, ne hanno tramandato il testo: l’accurato esame di Giuseppe Giordano ha infatti contribuito ad operare la scelta corretta e oltretutto ad attestarne l’autografia, e quindi l’indiscussa autorevolezza in quanto ultima volontà, seppur tormentata e forse non definitiva, dell’autore, come testimoniano cancellazioni, ripensamenti, varianti, aggiunte, glosse, tutte di un’unica mano, la stessa che redige il testo, e – come testifica il recentissimo ritrovamento di un certificato medico – redatto di suo pugno da Diego Ferdinando.
La densa Prefazione di Rosario Iurlaro introduce alla complessa dinamica costruttiva della Messapographia, indicandone i rapporti con i principali modelli e fonti, testando gli umori e la sensibilità del medico filosofo di Mesagne nella sua interazione con il contesto in cui operò, e individuando gli snodi problematici che contraddistinguono la sua operazione letteraria, inevitabilmente gravitante intorno ai due poli accentratori del suo tempo: quello del potere politico feudale, ulteriormente potenziato dalla ridistribuzione e dalla vendita dei beni da parte dello Stato centrale iniziate già nella prima età viceregnale, e quello del clima postridentino, che aveva riattivato il primato del potere religioso e dei suoi rappresentanti.
Domenico Urgesi nella sua esaustiva e puntuale introduzione avvia e guida il lettore lungo un accattivante percorso finalizzato a illustrare la vicenda biografica di Diego Ferdinando e il farsi della Messapographia sulla scorta dell’Antiqua Messapographia del padre di Diego, Epifanio Ferdinando, che si conserva manoscritta, e spesso in polemica con il pressoché coevo lavoro di Giovanni Maria Moricino sulle antichità di Brindisi, a intervenire con perizia filologica nella descrizione del codice 1655 e degli altri testimoni, anch’essi manoscritti, dell’opera, e infine a fornire una mappa della labirintica struttura testuale, focalizzando l’attenzione su alcuni luoghi-chiave che favoriscono un approccio interpretativo coerente con le dinamiche socio-politiche e religiose dell’età in cui visse lo storico mesagnese. Ma non è che un primo avvio alla lettura, che si sostanzia e procede spedita perché supportata dall’indispensabile, ricco e pertinente apparato di note approntate da Urgesi e Scalera, relative alla individuazione delle fonti, alla contestualizzazione degli eventi e dei personaggi cui si fa riferimento nel testo, alle questioni di carattere più squisitamente filologico, che consentono di visualizzare i diversi tempi dello stratificarsi della scrittura di Diego Ferdinando.
Due personaggi – il Galatonese ed il Mesagnese – che si definiscono entrambi medici e filosofi, che si dilettano di letteratura, secondo un cliché che avrebbe ampiamente travalicato i secoli XVI e XVII, attivi entrambi nel Salento e sicuramente affascinati dalla loro terra natia. Eppure Galateo e Ferdinando operano scelte sensibilmente diverse, espressione, come sono, di diversi climi culturali e socio-ambientali. Ferdinando compone anch’egli un complesso affresco di Terra d’Otranto, sia pur muovendo dal desiderio iniziale di tessere l’elogio della sua patria; Galateo lo fa premeditatamente, spinto dalla necessità di offrire un dettagliato vademecum ai nuovi dominatori spagnoli, che poco sanno e conoscono della Iapygia in un delicatissimo momento di transizione dei poteri e degli equilibri interni al Regno. Ferdinando incastona la vicenda di Mesagne nel quadro ben più ampio della subregione pugliese, sensibilmente differenziandosi da quanti – come Casmiro, Quinto Mario Corrado, Moricino, Giovine – avevano inteso circoscrivere l’indagine alla loro città ed elogiarne la superiorità rispetto alle località vicine o lontane che fossero, diversamente dal Galateo, che aveva invece tessuto l’elogio della Iapygia nel suo complesso, giudicando in modo equilibrato l’importanza e il prestigio di ogni singolo insediamento, in base ad alcuni fattori determinanti, quali ubicazione, ruolo giocato nei più importanti eventi storici esaminati in un ampio arco cronologico, dall’antichità alla modernità, risorse del suolo, carattere predominante negli abitanti e personaggi che han dato lustro alla città, secondo uno schema risalente alla Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni, restauratore della descriptio e laudatio urbis in età umanistica.
Il passaggio dalla scrittura sulle città tra primo Cinquecento e secondo Cinquecento e Seicento è segnato proprio dalla frattura che si attua tra quel sistema così accuratamente parametrato dagli auctores e dagli umanisti, e la maggior propensione, se non addirittura l’assoluta opzione, per il primato della storia e dell’antichità, insieme a quello ineludibile della religione. Si badi bene: tutto quanto ricorre negli autori più tardi è già presente, ad esempio, nel Galateo, ma qui occupando uno spazio ben circoscritto, là invece più che esuberante, in sintonia con l’esasperarsi delle questioni contemporanee relative all’invasiva incidenza del potere politico feudale e religioso nella vita delle comunità locali. L’indagine corografica si fa così indagine prevalentemente, se non esclusivamente, storica, mediante il vistoso recupero dei miti delle origini, che, assieme ad altri fattori, quali ad esempio il possesso di importanti – o almeno vantate come tali – reliquie di santi, contribuiscono a sostenere e ad avallare il primato di una località su un’altra attraverso il mantenimento e l’ampliamento dei privilegi, che assicurerebbero successo e benessere economico: non più quindi l’appartenenza al demanio regio, autogestione a livello locale, valore in battaglia in difesa dei propri legittimi governanti i motivi di orgoglio, così come era accaduto per la Gallipoli galateana nella recente età aragonese, ma esibizione della remota antichità e della indiscussa nobiltà della progenie, discendente da grandi personaggi biblici, divinità olimpiche o mitici eroi di straordinarie imprese, che avevano dato origine alla città, il nuovo parametro valutativo allineato con la nuova sensibilità della restaurazione aristocratica imposta dall’età degli assolutismi.
Anche il valore del documento scritto è messo in crisi, perché in taluni casi non comproverebbe o addirittura smentirebbe le tesi che si intendono sostenere, e se ne accusa l’imperizia dei copisti o la parzialità degli auctores o l’inevitabile corruzione che un testo fatalmente subisce nella sua trasmissione nel tempo: agli antichi, ai quali, insieme con l’autopsia, esclusivamente si affidava il Galateo, si preferiscono i moderni, con cui condividere alcune posizioni, polemicamente avversandone altre, e gli autori che tratterebbero delle ere storiche più remote, accreditandone talora del tutto inopportunamente la veridicità: valga per tutti il ‘caso’ della mistificante miscellanea assemblata da Annio da Viterbo, subito smascherata e destituita di ogni fondamento dal Galateo, ma ampiamente consultata dai suoi poco accorti epigoni, a iniziare dall’autore della Descrittione di tutta Italia. Diego Ferdinando fa tuttavia eccezione e sulla scorta del suo mentore stigmatizza le Antiquitates, il che non lo esime, ricorrendo talora proprio al vituperato anniano Beroso, dal dar voce – ci creda o no davvero – a mirabolanti percorsi genealogici posti a fondamento dell’antichità della fondazione di Mesagne, antecedente a quelle di Brindisi, di Oria e di Taranto. Ma il discorso è condotto per ellissi, non in modo esplicito, diretto o polemico. La definizione del quadro storico dei centri più importanti della Messapia, lo induce infatti a misurarsi con i racconti, non meno fantasiosi del suo, addotti per vantare la priorità di nascita delle altre città salentine, e da Diego puntualmente contestati per rimarcare indirettamente, non essendoci riferimenti manifesti in tal senso, come i presunti ecisti siano comunque posteriori a quelli di Mesagne. Oltremodo esuberante è questa porzione del testo, del tutto ipertrofica se paragonata ai pochi accenni galateani sulla formazione dei centri urbani della Iapygia, peraltro costantemente documentata con la testimonianza scritta degli auctores latini e greci. Ferdinando segue, in questo caso, la moda instaurata già da tempo, per i motivi cui prima si accennava, privilegiando necessariamente il mito, piuttosto che le testimonianze tratte dai classici, moda cui aveva ceduto anche Leandro Alberti, il quale non aveva disdegnato di dar credito e di servirsi delle già ricordate Antiquitates del suo confratello Annio.
E all’indiscussa autorevolezza dell’Alberti (“vedesi Missagno da i litterati Messania detto. Al mio credere, quivi era Messapia nominata da Plinio ne mediterrani di questa Regione…”, Descrittione di tutta Italia, princeps, Bologna, Giaccarelli, 1550, c. 211v, ma vd. anche c. 203r), espressamente citato a riguardo dal Ferdinando, è da ricondurre la soluzione dell’iniziale controversia sul nome di Mesagne: esso sarebbe da correggere in Messapia, come vuole appunto l’Alberti, fondata dall’ecista Messapo, e perciò non Mesagne, esito di una sviante corruzione del toponimo. Su tale presupposto il Ferdinando si spinge a modificare arbitrariamente in Messapiam il nome della località correttamente citata dal Galateo nel De situ Iapygiae come ad Mesaniam (ed. Basilea 1558, c. 67r e così anche nella restante tradizione), con l’evidente intento di correggere l’errore in cui era incorso l’umanista o il tipografo, ma senza però avvertirne il lettore. Una volta condiviso e fatto proprio questo assunto, la via era aperta a qualsiasi possibile identificazione di Messapia con Mesagne, cioè del territorio con il centro abitato, per cui anche dove nelle fonti antiche si parlasse di Messapia sarebbe stato ovvio intendere, per Ferdinando, che si trattava della ‘sua’ Mesagne.
E se ampio spazio è accordato al mito delle origini, altrettanto, nell’economia dell’opera, è riservato alla trascrizione, più o meno corretta, di epigrafi latine, per lo più di età imperiale, e alla descrizione delle monete rinvenute nelle necropoli, entrambe tese a dimostrare l’importanza di Messapia/Mesagne in età romana e nei secoli precedenti. Non è una novità: l’attenzione per l’antiquaria era già maturata nel corso del Quattrocento e Ciriaco d’Ancona, nella prima metà del secolo, aveva riempito il suo diario di trascrizioni delle epigrafi in cui si era imbattuto nel suo peregrinare lungo le coste adriatiche e dell’Egeo fino a Costantinopoli. Non meraviglia quindi che già Galateo accennasse al rinvenimento casuale di tombe e di manufatti durante i lavori agricoli e ne desse sommaria notizia nel De situ, e che poi trascrivesse accuratamente una iscrizione messapica per documentare l’esistenza di un popolo nella Iapygia che disponeva di una parlata sua propria, ben prima della venuta dei Greci e dei Romani, la cui lingua aveva ben presto soppiantato, in quanto lingua dei conquistatori e non per altri presunti pregi, quella più antica. Ma ciò che nel De situ è riferito come occasionale, appare nella Messapographia quale esito di una sistematica, per quanto embrionale, ricerca archeologica, che conduce al ritrovamento di vasellame a figure nere e rosse, oltre che di monete, lacrimatoi e altri manufatti fittili, che costituiscono i corredi funerari delle numerose sepolture rintracciate sia in campagna che all’interno del circuito murario: il ricco apparato di tavole che correda l’elegante volume dell’edizione della Messapographia offre un significativo esempio di questa produzione vascolare e dei ritrovamenti epigrafici di Mesagne, oltre alla riproduzione di alcune carte del manoscritto e di carte geografiche di diverse epoche della penisola salentina. In questo caso, come in tanti altri, la citazione delle tombe, della loro localizzazione e fattura, è l’occasione per Ferdinando di un lungo excursus sugli usi funerari degli antichi e sull’etimologia dei più recenti “cimiteri”: come il periodare procede per accumulo di frasi e periodi, così il racconto, che pure segue una precisa impostazione di tipo cronologico, si dipana in continue digressioni, segno dell’adesione all’erudizione serpeggiante negli ambienti letterari, massimamente provinciali, del tempo e della volontà di esibire la propria poliedrica formazione ‘umanistica’ da parte dell’autore.
In tale schema si inserisce anche il progetto di riscrivere in realtà, seguendo il tracciato della storia di Mesagne, la vicenda dell’intera regione messapica, offrendo al lettore un’opera di più largo respiro e di più esaustiva e aggiornata informazione. Poco importa se dei vasi finemente decorati Ferdinando non riesca a fornire una datazione più precisa, per quanto approssimativa, o se le notazioni sulla monetazione siano spesso fuorvianti e inattendibili e le epigrafi latine non sempre siano correttamente interpretate: importante è cogliere il senso e lo spirito di quelle scoperte, il desiderio di cercare di conoscere e di capire, di rintracciare nella cultura materiale un supporto tangibile a quelle ipotesi di lettura del passato che la civiltà letteraria sembrava non più riuscire a sostenere con le sue anomalie, contraddizioni, precarietà e corruttele. L’intemerata fiducia negli antichi, su cui si era fondata la rinascita dopo il lungo periodo di stasi medievale, cedeva inesorabilmente il passo ai ‘moderni’ e si accingeva, anche con le sue estrosità, le sue incoerenze, le sue esasperazioni, ad aprire la strada all’età dei lumi. E tuttavia Ferdinando non mancava di un certo senso critico, quando, sconfessando il Casmiro, negava la possibilità che le colonne terminali della via Traiana fossero state poste lì a Brindisi da Brento figlio dell’Ercole di Libia, e proponeva l’ipotesi, di certo più attendibile, secondo cui fossero riconducibili all’età tardo imperiale.
Per quanto la lettura del primo e di parte del secondo libro con i suoi vagheggiamenti sul mito di fondazione della città può costituire per il moderno lettore poco più di un divertissement, per tanto invece i libri successivi, di ben diverso spessore e interesse, possono riservagli non poche gradevoli sorprese. Diego Ferdinando attingendo da una attenta e selezionata rosa di fonti, soprattutto ‘moderne’ e pressoché coeve, restituisce un quadro storico assai seducente della Messapia, dei suoi centri, delle diverse dominazioni, spaziando dai greci e dai romani fino a giungere alla sua età, passando ordinatamente per Goti, Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi e Spagnoli. Come ben nota Urgesi egli non mostra partigianeria di sorta: diversamente dal Galateo della Callipolis descriptio non auspica, né tratteggia i caratteri di una città possibile, governata dai cittadini migliori. Lo sguardo sulla vicenda politica contemporanea, fondata su un consolidato potere aristocratico a livello locale e su un governo centrale lontano e fuori dell’Italia, non può più alimentare utopiche speranze, forse ancora possibili in quella realtà tutta in divenire del primo decennio del Cinquecento. Ferdinando quindi si astiene da ogni giudizio, limitandosi a citare e ad elencare i nomi dei sindaci e dei feudatari, subentrati questi ultimi dopo la caduta del regno aragonese e la perdita del titolo di città demaniale da parte di Mesagne.
Se nell’economia dell’opera scarso spazio – solo il primo capitolo del primo libro – è dedicato alla descrizione in generale della regione Messapia, peraltro redatta sulla scorta del De situ Iapygiae, senza significativi e personali apporti ulteriori, con identici riferimenti, il più delle volte chiari riporti dal testo del Galateo, anche alla feracità del suolo e ai mali che affliggono il territorio, più ampia attenzione è riservata invece agli aspetti religiosi nei primi tre capitoli del quarto libro, sui quali si insiste con l’intento di non discostarsi dalla dominante propensione all’esaltazione delle glorie locali, soprattutto se legate al culto dei martiri, attivata dalla riforma cattolica. Da qui il racconto particolareggiato del martirio di Eleuterio, Anzia e Corebo, mentre sull’altro versante è da notare un’altra impropria correzione al testo del De situ Iapygiae, nel quale, a proposito dell’indubbia utilità di alcuni uccelli peculiari della Messapia che si cibano dei bruchi o cavallette, estremamente dannose per le colture, Ferdinando emenda il testo di gaviae in gainae, respingendo il termine impiegato da Botero e preferendogli la lezione del ‘moderno’ Ortelio. Un fatale errore di lettura e di trascrizione (-in- per -ui-) di qualche maldestro copista o dello stampatore del De situ, probabilmente suggestionato dalla lectio facilior di gainae, diventa così oggetto di una puntigliosa disamina da parte del Ferdinando che si preoccupa di supportare la propria scelta con le ragioni dell’ornitologia. In effetti la tradizione manoscritta del testo galateano reca correttamente, nel passo in questione, citato alla lettera da Ferdinando, la lezione gaviae, concordando quindi con Botero; l’edizione di Basilea, invece, reca appunto gainae e quasi certamente ad essa si è rifatto Ortelio, seguito da Ferdinando, che leggeva in essa la genuina forma adottata dall’umanista salentino.
Questo esempio dimostra ancora una volta di quanto sia debitrice la Messapographia al De situ Iapygiae, non solo e non tanto per le citazioni da esso tratte, ma per la variegata tipologia dei temi affrontati, sia pur sviluppati in modo diverso e avendo, all’interno del testo di Ferdinando, un diverso peso: dai dialettismi, all’antiquaria, dalla religione, all’attenzione per le vicende contemporanee. È come se il De situ fungesse da sottile fil rouge, lungo il quale vanno a raccogliersi, per accumulo, testimonianze antiche e recenti, degli auctores e dei moderni descrittori dello sfaccettato mondo salentino cinque-seicentesco, in un percorso che recupera le intime suggestioni della ricerca corografica per piegarla però a quella dell’indagine storiografica, assolutamente preminente nella Messapographia. Un testo di sicuro interesse quindi per il lettore, il quale può leggervi, insieme con la miriade di informazioni sulla Messapia, oltre che su Mesagne, il progredire verso nuovi approdi della cultura dell’estremo Mezzogiorno d’Italia, in cui l’erudizione, lo studio dei classici, la riconosciuta primazia dei moderni e la rinnovata attenzione per la cultura materiale costituiscono gli importanti capisaldi di un movimento letterario in cerca di nuovi approdi, senza però mai smarrire l’importante lezione dell’età dell’umanesimo.
Domenico Defilippis