Duro a morire il falso castello normanno-svevo di Mesagne ossia Uso e abuso della storia (di Domenico Urgesi)

Caro Enzo Poci (Amicus Plato, sed magis amica veritas),

mi ha incuriosito un tuo articolo apparso recentemente, Il falso (?) castello normanno-svevo, nel quale hai ben illustrato tutte le tue convinzioni sul castello di Mesagne. Nell’incipit del tuo scritto hai richiamato un mio articoletto del 18 giugno scorso su questo sito, dal quale hai preso lo spunto, pur senza citare la testata che mi ospitava, come sarebbe opportuno quando si vuol contestare qualcosa o qualcuno (adesso, per correttezza nei confronti del mio editore, sono costretto a fare la stessa cosa). E mi spiace dirti che hai sbagliato bersaglio. Il tema del mio articoletto non era il cosiddetto castello normanno-svevo, ma l’uso e l’abuso della storia. Però… il tuo articolo mi offre l’occasione per una riflessione più ampia.

Ma partiamo dalle tue convinzioni. In particolare, hai voluto confermare che questo castello (il Torrione) “è normanno-svevo”. Hai opportunamente ricordato che Giovanni Antonucci aveva ritenuto che fosse un falso la cronaca detta “Anonimo Neritino”; e tu, hai preso atto dell’autorevole parere dell’Antonucci; ma… poi, non ne hai tratto le dovute conseguenze. E, poiché siamo in argomento, mi è d’obbligo segnalare che il Chronicon Neritinum (1090-1412) partiva dall’anno 1090; perciò non parlava dell’anno 1062. Infatti è cosa ben diversa dal Chronicon Northmannicum (1041-1085). Era, in realtà, su quest’ultima cronaca che si fondava la tesi errata del castello normanno-svevo, lanciata da Antonio Profilo nell’Ottocento e ripresa da Anselmo Leopardi nel 1981. Ma nel 1986 André Jacob ha dimostrato che il Chronicon Northmannicum era un falso inventato di sana pianta e perciò – ha scritto – “di quel documento non si deve tenere alcun conto”. Anch’io, prima di leggere lo studio di Jacob, mi rifacevo a Profilo e Leopardi, pur riconoscendo i dubbi sollevati da vari studiosi (a tal proposito, vedi il Post Scriptum); ma dopo, anche alla luce del restauro del monumento, mi è sembrato stupido non riconoscere l’errore e l’ho scritto qui.

Mi ha sorpreso, quindi, una cosa che non sarebbe giusto aspettarsi da uno studioso del tuo livello: ti sei astenuto dal prendere in considerazione gli studi e le ricerche fatte negli ultimi anni da illustri storici quali André Jacob o Raffaele Licinio. Come ti sei astenuto dal citare le fonti pubblicate dalla Società Storica di Terra d’Otranto, quali la Storia di Mesagne del Mannarino e la Messapographia di Diego Ferdinando. È come se questo articolo tu lo avessi scritto 40 anni fa.

Alla fine della tua disamina, hai concluso che “il falso castello Normanno-Svevo è meramente un falso tema storico”. E ciò perché, hai aggiunto, codesto castello “…è una realtà concreta che impone i suoi stili edilizi sovrapposti, introdotti temporalmente dallo stile di epoca normanno-sveva […] e la memoria unanime lo conosce e lo richiama con il nome di Castello Normanno-Svevo”. È, in fondo, questo ragionamento il tipo di argomenti che l’AIPH (Associazione Italiana di Public History) raccomanda di evitare; ma, di questo, ne parleremo in seguito.

Intanto, è opportuno chiarire a cosa si riferiva il mio intervento del 18 giugno, dal quale hai preso lo spunto. Esso traeva origine da una notizia sbandierata a tutto spiano, apparsa il 12 giugno scorso, circa un progetto sponsorizzato dal Comune di Mesagne: «…studentesse al 3° anno di Scienze della Formazione presso l’Università del Salento, hanno realizzato un originale progetto sulla storia di Mesagne destinato agli alunni della scuola primaria. Il video-progetto racconta l’evoluzione della nostra città attraverso un viaggio immaginario che fanno compiere a Roberto D’Altavilla, duca normanno al quale gli storici attribuiscono la volontà di costruzione del primo impianto del Castello comunale….». Cosicché: Gli storici sarebbero stati capaci di scoprire la “volontà” del duca di Altavilla!? Qui non si tratta soltanto del falso castello, ma addirittura dell’invenzione della volontà del duca... Non mi risulta che ci siano documenti che attestino codesta volontà; né falsi, né veri. E se qualcuno li scoprisse sarebbe lo scoop storico del secolo. Capisci!?

Bene il coinvolgimento delle scuole, dei ragazzi, così come (lo dico en passant) ho cercato di fare in 26 anni di servizio tra Biblioteca e Museo. Però… l’uso pubblico della storia prescrive che almeno si rispetti la verità dei fatti. Storytelling, rievocazioni, ricostruzione virtuale, umane meraviglie, vanno benissimo, certo! Ma non si traduca in dozzinale spettacolo. O, peggio, in “panem et circenses”. Ecco, questo era il senso del mio articoletto.

Adesso, vengo a chiederti:

1) a quale evidenza architettonica ti riferisci? Dov’è qualche elemento architettonico, in questo manufatto, attribuibile all’epoca normanno-sveva? Dici: nella base del castello: parlano le pietre. Bene: come sai, la stessa tipologia costruttiva del Torrione di Mesagne ce l’hanno il castello di Pulsano, quello di Tricase, quello di Galatone. E nessuno mai si è sognato di denominare codeste architetture “normanno-sveve”. Perché quella di Mesagne lo deve essere? Invece, è acclarato che il Torrione di Mesagne faceva parte della rete castellare costruita da Giannantonio Orsini del Balzo per consolidare il suo Principato nel confronto col re di Napoli Ferrante d’Aragona.

2) Cosa significa la memoria unanime lo conosce e lo richiama con il nome di Castello Normanno-Svevo”? Siccome è così nella mentalità dei mesagnesi, allora… ci dobbiamo adeguare? In effetti, mi pare che le guide turistiche tengano conto anche della memoria tràdita nel raccontare la storia ai turisti che vogliono visitare il castello. Il personale addetto, infatti, deve far vedere le cose concrete corrispondenti al racconto storico; e, correttamente, menzionare anche le leggende. Nell’androne, c’era una volta una colonnina multi-mediale realizzata (da un gruppo di studiosi mesagnesi) con fondi europei, che raccontava la storia e le leggende del castello.

Tuttavia… non è che se una cosa sbagliata la dicono 30.000 mesagnesi, quella cosa diventa vera; sempre sbagliata è. Anche se resta nella “mentalità dei mesagnesi”.

Parliamo, allora, della “mentalità dei mesagnesi”. Voglio ricordarti, ma tu lo sai benissimo, come e perché il falso castello normanno-svevo entrò nella narrazione dei monumenti mesagnesi: artefice ne fu il sindaco/storico Antonio Profilo nella seconda metà dell’Ottocento, per motivi di politica culturale contingente e, allo stesso tempo, strutturale. E questa operazione ben riuscita da parte del Profilo, di creazione della tradizione, non è un fatto irrilevante per la storia di Mesagne nell’Ottocento, e anche nel primo Novecento. L’utilizzo della storia nel modo che ne fecero Antonio Profilo a Mesagne, Castromediano, Casotti, Grande, Maggiulli ed altri a Lecce e nel Salento, era funzionale alle sorti delle classi e dei gruppi dirigenti che presero il sopravvento a cavallo dell’Annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Savoia. La rivalutazione del Regno Normanno-Svevo partì da Napoli, subito dopo l’Annessione. E il ceto intellettuale salentino colse l’occasione. Lecce denominata “Atene delle Puglie”, Lecce “seconda solo a Napoli” erano idee utili alla valorizzazione di un territorio molto periferico rispetto alla nuova realtà la cui capitale stava a Torino. La discendenza da un Regno e da una Contea (quella di Tancredi Normanno) dell’XI secolo era molto più prestigiosa di quella Sabauda che poteva vantare un piccolo ducato solo dal XV secolo.

Dovremmo aver imparato qualcosa, noi che ci siamo tanto occupati del Risorgimento mesagnese. Emerge già lì quanto magmatico fosse l’ambiente sociale mesagnese, con giacobini e sanfedisti pronti ad amalgamarsi, a fare squadra verso le minacce esterne, fossero i Francesi o i falsi principi borbonici agli ordini del cardinale Ruffo. Pronti a battersi per lo Statuto, salvo poi sostenere di essere stati costretti. Profilo seppe ben innestare Mesagne in quella narrazione, anche stiracchiando le fonti storico-letterarie, appoggiandosi a illustri predecessori quali Epifanio Ferdinando, Cataldantonio Mannarino, Maia Materdona, ma soprattutto Diego Ferdinando, del quale con maestria (e fin troppo acume) utilizzò il ms. ultimato nel 1655 (en passant ricordo che l’anno scorso fu donato all’Archivio Capitolare di Mesagne dal sottoscritto, ma questo solo en passant). Quei gruppi dirigenti già borbonici fecero la rivoluzione anti-borbonica rimanendo sempre in sella, arricchendosi subito dopo con le requisizioni dei beni ecclesiastici, ma restando sempre “timorati di Dio”.

Nonostante piccole dissonanze, il blocco di potere costituito (nel 1860) dai nuovi ceti medi (commercianti, avvocati, medici, e medio-grandi proprietari) era fondamentalmente osmotico; e metteva ai margini chi non si adeguava. Sulle dinamiche del notabilato in Terra d’Otranto esiste una vasta letteratura storica. Quelle famiglie sapevano cosa facevano, perché – tramite soprattutto Profilo – usavano la storia (e ne abusavano) come propaganda, in maniera consapevole. E continuarono a farlo (mediante le varie élites che si sono succedute) anche nel periodo fascista.

Nel post-fascismo al notabilato ormai decadente seguì l’avvento del piccolo ceto medio, più attento a godere del boom economico che a curare l’immagine culturale della città, tranne piccole eccezioni che coltivavano quel tipo di cultura Ottocentesca. La cultura, in quel periodo (il quarantennio dal 1945 al 1985 circa) veniva praticata nelle parrocchie, nei circoli giovanili di Partito, nelle varie iniziative sportive (calcio, pallacanestro, ecc.), in qualche associazione elitaria. Non esisteva una Biblioteca; ricordo che negli anni ’60 c’era un bugigattolo in via Albricci, con libri spaginati e incollati alla meno peggio, che definire biblioteca sarebbe come equiparare un pollaio ad un soggiorno. Il Teatro Comunale era inagibile e destinato a fungere da deposito comunale. Nei primi anni ’70 (ricordi personali), l’Arci e il Movimento studentesco agitarono per qualche tempo la richiesta della biblioteca e del teatro, ma quelle aspirazioni furono lasciate cadere e morire da un ceto politico e intellettuale appagato dallo status raggiunto. [Ovviamente, questo è solo un accenno, poiché non ho studiato abbastanza quel quarantennio. Intanto, i protagonisti di quella fase storica potrebbero dire molto di più.]

Finché, nel periodo che alcuni hanno chiamato “Rinascimento mesagnese”, ossia il quindicennio che va dal 1990 al 2005 circa, i nuovi ceti dirigenti social-popolari cercarono di rilanciare l’immagine antica di Mesagne e i suoi antichi fasti. Forse, sarebbe più corretto parlare di ventennio 1985-2005, considerando gli anni dal 1985 al 1990 come preparatori, caratterizzati da una fortissima opposizione e partecipazione sociale. Si era nel pieno dell’esplosione della criminalità organizzata; si era nel bel mezzo del degrado del centro storico. E si puntò a rigenerare gli ambienti, rivalutare la grandezza dell’antico passato, ricreare relazioni sociali, e a risvegliare un orgoglio cittadino che era stato messo in crisi da quell’immagine deturpante. Si cercò anche (lo ricordo a me stesso) di superare l’angustia di una narrazione storica identitaria non più necessaria.

In quel contesto, si cercò di adeguare la narrazione del passato ai nuovi contributi apportati da studiosi più o meno paludati, ma anche non paludati affatto. Di divulgare le conoscenze storiche, perché anch’esse potevano essere utili al rilancio della città. E di coniugare la tradizione con l’innovazione. Anzi: di contribuire alla creazione di una nuova tradizione; cioè costruire una nuova identità culturale degna di consolidarsi e di essere trasmessa. E di creare un nuovo “pubblico”, con un orgoglio cittadino senza campanilismo. Ci riuscimmo (anche io e te demmo il nostro contributo), i mesagnesi riscoprirono l’orgoglio della loro Terra. Era un’operazione molto difficile, in un ambente molto magmatico, in cui il blocco di potere era molto attento a compiere i rinnovamenti con il bilancino. Anche perché, per storica abitudine, coloro che prima erano stati all’opposizione, una volta entrati nel blocco di potere dominante, dovevano dimostrare di rappresentare genuinamente anche questo, se non di esserne gli alfieri.

Si diede un’anima al centro storico, non solo un rifacimento architettonico. Funzionò tanto bene, che qualcuno parlò di “modello mesagnese” da esportare anche in altre realtà; ma nel quindicennio successivo avvenne una graduale trasformazione, e il modello si affievolì. Per molti motivi; non ultimo il fatto che a cavallo del XXI secolo avvenne la fine del PCI (nel 1991), la successiva trasformazione in PDS-DS e (nel 2007) PD, con il conseguente indebolimento dell’afflato ideologico. Su questo argomento mi fermo al solo accenno, perché andrebbe sviluppato con riferimento allo sviluppo nazionale e regionale; ma spero che questo mio intervento stimoli un dibattito ampio, ormai urgente e non rinviabile. Per quel che riguarda il lato storico (sottolineo non politico) degli ultimi 75 anni a Mesagne (in particolare i due ultimi quindicennii), penso che sia utile delineare il quadro politico-culturale di lungo periodo. Avendo studiato abbastanza l’Ottocento mesagnese, mi balza agli occhi come la narrazione più o meno Ottocentesca si insinua attraverso le varie epoche, persiste e sopravvive fino ai nostri giorni. E come sia funzionale alla coscienza identitaria che di sé hanno i gruppi di potere via via susseguitisi. E come pesa sul presente (a me sembra), anche involontariamente.

P.S.:

La cronaca intitolata “Breve chronicon northmannicum” non è il “Chronicon neritinum” (differenza ben nota all’Antonucci): sono due cose diverse, anche se entrambe pubblicate nei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori. Solo che la prima fu pubblicata nell’anno 1724, la seconda nel 1738. La prima fu confezionata da Pietro Polidori, la seconda da G. Bernardino Tafuri, entrambe nei primi anni del ‘700. Entrambe sono dei falsi conclamati, sbugiardati dai seguenti illustri studiosi; li cito in ordine cronologico: Ermanno AAr/L. G. De Simone nel 1879, B. Capasso nel 1902, G. F. Tanzi nel 1905/1906 sul Chronicon neritinum, giudizio poi condiviso dall’Antonucci nel 1913; G. Guerrieri nel 1905 sul Breve chronicon Northmannicum, poi condiviso dall’Antonucci nel 1929; L. Chiriatti nel 1910 sul Chronicon neritinum.

Sul Chronicon Northmannicum ci sono stati dei ritorni di fiamma (tra cui E. Cuozzo nel 1971 e padre A. Leopardi nel 1981), finché A. Jacob nel 1986 l’ha smontato definitivamente.

 

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