Viaggio nei giochi fanciulleschi praticati un tempo a Mesagne, II puntata (M. Ignone)

Continua il nostro viaggio nei giochi tradizionali mesagnesi.

Al lettore affezionato, che è giunto fin qui e vuole approfondire l’argomento gioco, suggerisco di leggere J. S. Bruner, A. Jolly, K. Sylva, Il gioco, voll. 4, Armando, Roma, 1981.

In questo terzo intervento ci occuperemo di gioco e cultura e vedremo altri due giochi tradizionali mesagnesi.

Gioco e cultura

Il gioco, dal latino iocus che significa “scherzo, burla, facezia”, mentre il plurale ioci sta per “giochi, divertimenti, passatempi”, ricorre anche nei nostri proverbi e nei modi di dire; eccone alcuni:

  • Sciuecu ti mani, sciuecu ti villani
  • Lu sciuecu no vvali la candela
  • Lu sciuecu eti bellu ci tura picca
  • Amu persu coculi e sciuecu
  • La mugghieri ti lu sciucatori no mmangia pani quandu voli
  • Ci si scioca li uecchi eti megghiu cu rrešta ciecu
  • Lu galantommu si veti a llu sciuecu ti li carti
  • Lu perdiri eti malisangu a ttutti
  • È pigghiatu asu pi fficura
  • Femmini, sciuecu e sirvitori, ruvinunu lu signori
  • Li uatagni a bbattipareti e li pierdi a spaccachianchi
  • A llu sciuecu la furtuna assišti li fessi
  • Sordi vinti a llu sciuecu turunu picca, com’a llu fuecu.

Nella vita di tutti i giorni utilizziamo modi di dire come

  • a cce sciuecu šta sciucamu? a che gioco giochiamo? quando si vuole esprimere impazienza o indignazione nei confronti di chi ci vuole ingannare;
  • sciuecu ti vagnuni, gioco di ragazzi, per indicare qualcosa facile a farsi;
  • eti nnu sciuecu, è un gioco, una cosa da nulla, senza alcuna difficoltà, una bazzecola di cui non preoccuparsi;
  • pigghiari a sciucarieddu, prendere come gioco, non prendere sul serio, è un balocco per bambini, qualcosa con cui trastullarsi, insomma cosa di poco conto.

In realtà il gioco fanciullesco di una volta era un’attività complessa, con regole e tecniche precise, strumenti da utilizzare ed obiettivi da raggiungere, scelte da compiere, spazi da preparare, oggetti da reperire, giocattoli da costruire, oltre alla vigilanza da porre e alle punizioni da infliggere in caso di sbagli o sconfitte. E l’ambiente povero non agevolava certo tutto questo lavoro.

Tutto questo contrasta, e molto, con la locuzione “per gioco” che con troppa fretta e leggerezza traduciamo “per scherzo; per divertimento; con poca serietà”, visto, invece, l’impegno che il gioco richiedeva.

Naturalmente, noi ragazzi giocavamo per divertirci. Il nostro era un bisogno primario per il quale ci impegnavamo con interesse e piacere ma anche con grande dispendio di energie psico-fisiche.

Il gioco tradizionale fanciullesco era naturale, serviva a relazionarci nella e con la comunità, ad allacciare rapporti alla pari con gli altri ragazzi, a farci conoscere e conoscere l’ambiente mesagnese, sia urbano che naturale.

Pensate all’enorme distanza che c’è con i videogiochi di oggi, anche se giocati con altri ragazzi on line; oggi il ragazzo è solo davanti al monitor, mentre i nostri compagni di gioco erano veri, erano altra cosa da quelli virtuali…

Anche sul piano temporale le cose stanno in altro modo; abbiamo visto il proverbio “lu sciuecu eti bellu ci tura picca” secondo il quale il tempo non deve prolungarsi troppo per evitare la noia e problemi peggiori. In realtà i nostri giochi duravano fintanto che le energie profuse non si erano del tutto esaurite; per questa ragione era abbastanza raro poter stabilire una durata, dal momento che il gioco era un’attività che si autoalimentava.

I più anziani ricorderanno le lunghe gare a lli quattru cantuni (a lli quattru pizzuli) che, iniziate in piena luce solare, andavano avanti fino a sera, sfruttando sia la luce artificiale dei lampioni messi proprio al centro degli incroci che la pazienza dei genitori!

Il gioco di un tempo era un'attività libera, senza condizionamenti, ma non era solo ricreazione e svago, pur presenti, perché sviluppava nei fanciulli abilità psico-fisiche, manuali, tecniche ed intellettive. In poche parole serviva a costruire e fortificare il fanciullo come persona.

Tutti noi, della mia generazione e delle generazioni precedenti, abbiamo assorbito direttamente dall’ambiente, dalla Mesagne di quel contesto, la cultura del paese; è stato un fatto naturale, connaturato alla nostra età adolescenziale. Abbiamo partecipato al gioco collettivo e di squadra, vi abbiamo svolto un ruolo attivo, ne abbiamo rispettato le regole, abbiamo cooperato, ci siamo confrontati e scontrati, ma sempre positivamente e lealmente con gli altri ragazzi che abbiamo imparato a conoscere. Abbiamo scoperto e gestito le nostre potenzialità e le abbiamo misurate in rapporto a quelle degli altri. Abbiamo perso e abbiamo vinto. Eravamo parte di un collettivo sociale.

Ricordo ancora l’enorme libertà di cui godevamo. I nostri genitori impegnati nel lavoro o nelle faccende domestiche e noi a giocare per strada. Ma non eravamo lasciati a noi stessi. Tutta la comunità vigilava sui suoi figli, anche quando l’ambiente era abbastanza sicuro e tranquillo, come quello di un tempo. Il paese intero, le sue strade e stradine, le cento piazze e piazzette, gli ampi spazi periferici, gli orti, i marciapiedi erano a nostra disposizione.

Spesso il nostro mondo di fanciulli si incontrava con quello degli adulti che normalmente lasciavano fare; il rapporto diveniva problematico solo in rari momenti, quando il gioco costituiva un disturbo o si palesava un rischio, sempre presente in particolare in alcuni giochi. Per il resto gli adulti erano indifferenti o collaborativi. Ad esempio, quanti meštri, padri anche loro, hanno collaborato alla costruzione di monopattini!

Abbiamo appena fatto cenno al rischio insito in alcuni giochi. Componente essenziale di alcuni giochi di un tempo era proprio l’elemento rischio perché non giocavamo se reputavamo troppo facile o troppo difficile un gioco. Giocavamo solo se il gioco era una “sfida”, se ci stimolava, sia a misurarci con noi stessi che con gli altri; volevamo conseguire un risultato, possibilmente vincente, ed essere riconosciuti parte del gruppo. Per noi ogni gioco era una conquista.

Si pensi, a proposito del rischio, a li buatti posti su di una buca riempita ti carburiu e poi fatti esplodere! Oggi una simile monellata sarebbe impossibile. 

Ieri il gioco era parte delle tradizioni culturali, parte dell’ambiente, talmente naturale che il fanciullo cresceva proprio assorbendo questa realtà culturale, fatta oltre che di giochi fanciulleschi, di dialetto, di artigianato, di agricoltura, di tecniche, di educazione civica. Tutto questo lo si può dedurre

  • dalle operazioni che attengono alla dimensione organizzativa del gioco (ad es. minari a ttueccu, sciucari a ppallini, a fficurini, a bbattimurra, a ccavallu t’oru, ecc.);
  • dagli oggetti costituenti la posta in gioco (ad es. li buttuni, li sordi, li pallini, li ficurini, ecc.);
  • dai giocattoli (ad es. lu curlu o fitu, la ciamara, la fionda, la pumeta, lu scupitù, lu jo jo);
  • dal materiale e degli strumenti necessari per costruire i giocattoli (ad es. zippi, buatti, vinchi, cappetti, tauli, petri, molli, gissi, crauni,);
  • dalle formule rituali (ad es. ammme salami! liscia e liscia; sotta ca ‘nzippu; a cci chiappu chiappu; sarva tutti; );
  • dalle filastrocche (ad es. ntu ntu, cce nci štai la iatta mia? giro giro tondo; vola Gigino, vola Gigetto; );
  • dai vari esercizi fisici dei giochi (uno per tutti: a ccavallu t’oru);
  • dalle varie fasi del gioco (si pensi alle diverse fasi nel gioco a truddi, oppure le diverse modalità nel gioco a ccurlu: a ssobbramani, a ssottamani, a llenta corda);
  • dalle sanzioni (ad es. paiari pegnu; mittiti sotta; o le diverse penalità a truddi);
  • dai ruoli e funzioni (lu cartaru nel gioco delle carte, li latri, ci ava šta sotta, ecc.).

 

Due giochi fanciulleschi di un tempo

 

Nome: A mmonopattunu (A mmonopattini)

Numero giocatori: uno (ma esistevano anche monopattini biposto)

Genere: maschile

Luogo: all’aperto 

Materiali: assi di legno; cuscinetti a sfera; chiodi; asta ed occhielli di ferro

Descrizione:

Era uno strumento (qualcosa di più di un giocattolo…) costruito con pezzi di fortuna, i ragazzi più fortunati se lo facevano costruire appositamente da qualche meštru falegname. Lo strumento consisteva in un’asta di circa un metro e mezzo; ad una delle due estremità era applicata una ruota di legno del diametro di circa 15-20 centimetri; all’altra era fissata una stecca di legno orizzontale a mo’ di manubrio. Il ragazzo lo appoggiava alla spalla e lo teneva con il manubrio, spingendolo e guidandolo, di corsa, in ogni direzione. 

Successivamente, a partire dagli anni Sessanta, il monopattunu o monopattini si è raffinato: due assi di legno di circa un metro e venti, tenute insieme da due occhielli per asse e da un’asta in ferro infilata negli occhielli in modo da consentire la sterzata (due occhielli erano avvitati su di un parallelepipedo di legno, fortemente inchiodato su una delle assi posta orizzontalmente, mentre l’altra tavola era posta verticalmente) funzionavano come una moto, con due vere ruote create da cuscinetti a sfera, uno dei quali, quello davanti, era incastrato con una trave di legno nell’asse verticale, e l’altro (ma potevano anche essere due nei modelli più sofisticati) posto sul lato opposto dell’asse orizzontale, sul punto dove il ragazzo poggiava il piede destro, mentre il sinistro serviva per spingere e correre.

La parte superiore della tavola verticale accoglieva, ben saldo, il manubrio di legno che poteva essere posto verticalmente o obliquamente, quasi fosse un monopattini sportivo. Fittucci ti santu Cosumu, scupitù e altre sciccherie completavano la carrozzeria che poteva anche essere dipinta.

Il monopattini era il sogno di tutti i ragazzi dei nuovi quartieri di periferia che cominciavano a sorgere a Mesagne, figli di braccianti, manovali, artigiani, emigranti. Povera gente che non poteva permettersi una bicicletta per il figlio e il monopattini sopperiva con dignità. Lungo le poche strade asfaltate (le strade asfaltate si prestavano meglio delle strade di chianche, sconnesse e pericolose) gruppi di adolescenti sfrecciavano a gara sui loro monopattini costruiti con tavole di ogni genere e cuscinetti a sfera usati, cercati a lli ferrivecchi.

 

Nome: A ccurlu (anche A ffitu, italiano: A trottola)

Numero giocatori: almeno due o anche più

Genere: maschile

Luogo: in spazi aperti, per strada 

Materiali: lu curlu era composto di legno molto duro a forma di cono rovesciato o, meglio, di pera ed era di varie dimensioni. All’estremità conteneva una punta in ferro (lu pironi) mentre la parte superiore era munita di scanalatura elicoidale, attorno alla quale era avvolta una cordicella.

Descrizione: il gioco consisteva nell’imprimere alla trottola una violenta rotazione; prima erano definite le modalità del gioco (a ssobbramani, a ssottamani, a llenta corda), poi si faceva la conta per stabilire chi doveva porre per terra la sua trottola e l’ordine del gioco. Ogni giocatore avvolgeva la sua cordicella attorno al suo curlu e, nel caso del sobbramani, sollevava il braccio e scagliava con un colpo dall’alto al basso il suo curlu contro il curlu passivo, posto per terra. Nell’attimo in cui scagliava lu curlu, il giocatore ritirava la mano e, trattenendo per una capo la cordicella, imprimeva alla trottola una vorticosa e violenta rotazione con l’intenzione di colpire la trottola posta precedentemente per terra.

A ssottamani il giocatore scagliava la trottola per terra grazie a due veloci movimenti del braccio, in avanti e all’indietro.

A llenta corda, invece, la trottola era lanciata per terra dal giocatore che, se abbastanza abile, la prendeva tra le mani o tra due dita mentre questa girava vorticosamente su se stessa e la scagliava dall’alto sulla trottola passiva. 

Il colpo riuscito era detto mmoccia. Ma se il giocatore non riusciva a colpire la trottola passiva o a far girare il suo curlu, doveva lasciarlo per terra al posto dell’altro.

C’era una variante: lu curlu, una volta lanciato, era preso dal giocatore sul palmo della sua mano o con due dita, l’indice ed il medio (ma c’era anche chi riusciva a prenderlo sulla punta di un solo dito).

Vinceva chi riusciva a farlo roteare più a lungo degli altri. 

 

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