La mammana (di Enzo Poci)
L’articolo che segue – in merito al quale mi dichiaro debitore a Daniela Bacca – origina dal mio contributo presentato, e illustrato per mezzo degli audiovisivi informatici, al Convegno Nazionale promosso dalla Società Italiana di Storia della Medicina, Ostetricia: storia di “mani”, Lecco, 4-6 novembre 2010.
«… Se le prefiche erano le protagoniste dell’ultima fase del ciclo della vita umana, le mammane erano presenti al tempo della nascita. Queste erano le antiche levatrici che aiutavano le donne in procinto di partorire, insieme alle vicine di casa ed alle familiari della partoriente, le quali le facevano trovare abbondante acqua calda, fasciature e asciugamani». Così Daniela Bacca, a proposito delle «Donne di Soleto nella storia». Una splendida scena che ritrae il momento del parto è presente in una tela settecentesca della Chiesa di S. Maria in Betlemme di Mesagne (Brindisi), nella quale è illustrata la natività di Maria, alla presenza di alcune donne.
Mamma, la parola più bella sulle labbra dell’umanità (Kahil Gibran). La Natività di Maria (Mesagne, Chiesa di Santa Maria in Betlem). 2 Una di queste sembra avere tra le mani i panni indispensabili per la circostanza: alcuni già immersi in un catino, altri, stesi e tenuti a disposizione. Sulla sinistra è ben visibile una presenza maschile che, in base ad un costume pur non frequente, prevedeva durante il parto la presenza dello sposo. Solo donne, salvo a volte il padre del nascituro, erano presenti al parto… Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, il parto a domicilio ha costituito la regola, ed esso avveniva con la presenza della mammana (levatrice-ostetrica), della madre della partoriente, delle congiunte più strette e delle cummari (comari o vicine di casa). Questa moltitudine di persone era demandata a compiere le varie operazioni legate al parto: preparare catini di acqua calda, scaldare i panni, lavare e fasciare il bambino, e, soprattutto pregare affinché la Madonna o Sant’Anna protettrice delle partorienti alleviassero i dolori del travaglio, rendendo rapida l’espulsione del feto (o masculu o fimmina sia, caccialu a luce S. Anna mia).
Durante il parto “la figura del medico-ginecologo, soprattutto negli ambienti contadini, era quasi del tutto sconosciuta; il medico veniva chiamato solo in casi eccezionali, quando il parto si presentava particolarmente difficile con imminente pericolo di vita per la madre o il nascituro. In questi casi, prima che dal medico, si correva dal sagrestano affinché suonasse le tocche (rintocchi di campane a circa un minuto di intervallo l’uno dall’altro) per avvisare i concittadini che una donna stava soffrendo per il parto e pregassero per la salvezza sua e del bambino. 3 «Al parto a domicilio sono legati molti ricordi dell’inizio della mia professione – afferma il prof. Gerardo Giocoli Nacci, già primario di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di Brindisi – quando spesso venivo invitato a prestare la mia opera nelle abitazioni delle pazienti. Trovavo le donne già stese sul tavolo di cucina, con le gambe appoggiate sulla spalliera di due seggiole o sorrette da due familiari… Di fronte la indaffarata levatrice e, nella stanza, grossi recipienti di acqua fumante, in cui erano immersi numerosi panni reperiti tra la biancheria di famiglia; tutt’intorno, agitazione, grande agitazione e nervosismo!… Ricordo un caso in particolare, perché, per fortuna, fu unico!
Fui chiamato di notte, in campagna, al domicilio di una contadina che aveva già partorito e secondato. Trovai la donna nella solita posizione e in preda ad una violenta emorragia post-partum. La vulva della paziente era letteralmente circondata da una “ghirlanda” di fave fresche, con cui la levatrice (novella “Trotula”) intendeva arrestare la perdita ematica. Non fu facile mammanaconvincere, non tanto la levatrice, quanto tutta la famiglia della puerpera, della inutilità di questo metodo che, con un dolce eufemismo, definii “empirico”. Il caso fu poi risolto senza l’aiuto dei legumi!». Tra le donne che si avvicendavano intorno alla partoriente il ruolo preminente era svolto, come detto, da quella che era volgarmente definita mammana. Nel Salento, fino agli anni cinquanta del Novecento, questa figura era conosciuta con la parola dialettale mammara o pammara, a 4 seconda del luogo (Mesagne – Torre S. Susanna e Francavilla Fontana), ma anche commare, cioè «con la madre», vale a dire consigliera, confidente di segreti. La parola mammana, da cui derivano quelle di mammara e pammara, trae origine dalla parola mamma unita al suffisso ana: analoga alla madre, simile, uguale alla madre. Se la parola mammana è molto antica, il termine levatrice è, invece, di più recente utilizzo, risalendo al 1721, quando Sebastiano Melli, professore di chirurgia, lo utilizzò nel testo La comare levatrice istruita nel suo ufficio e questa figura è da distinguere dalla prima, poiché essa ha già un profilo professionale. Le mammane avevano una conoscenza empirica dell’anatomia femminile, in buona parte condivisa con le altre donne. Esse si basavano su quello che la partoriente sentiva o dichiarava di sentire, rispettando i suoi tempi e i suoi ritmi…, intervenivano con i rimedi naturali, per esempio, applicando panni caldi, poiché si riteneva che il caldo mitigasse le doglie. Le mammane incoraggiavano verbalmente le partorienti ed utilizzavano tecniche manuali (quale l’unzione del collo dell’utero con l’olio) e i rimedi di tipo vegetale: in presenza dei morsi uterini, consigliavano di bere camomilla con le foglie di alloro infuse. Le donne partorivano in posizioni diverse secondo i consigli della mammana. Il luogo favorito per il parto, nei mesi freddi, era la cucina, dove la presenza del focolare rendeva la stanza più calda e logisticamente più comoda per il riscaldamento dell’acqua. Il parto era accompagnato da numerosi elementi e gesti apotropaici al fine di renderlo più semplice e 5 veloce, in numerosi paesi del Salento alle partorienti venivano tolti i legacci delle calze e l’anello nuziale dal dito e si distendevano sul letto, al fianco della partoriente, alcuni indumenti del marito: pantaloni, cappello, cintura, che, secondo la tradizione, avevano il potere di allontanare gli spiriti maligni che potevano ostacolare il parto.
Espletato il parto, il padre del neonato o un parente diretto si recavano in chiesa e facevano suonare le campane: tre o più tocchi suonati a festa annunciavano la nascita di un maschio, due soli rintocchi quello di una femmina. Al suono delle campane, chiunque, ovunque si trovasse, recitava una preghiera e si faceva il segno della croce. In alcuni paesi, ancora nel Salento, la puerpera doveva rimanere a letto per un numero dispari di giorni, perché il numero dispari avrebbe portato fortuna al neonato, ma la donna che aveva avuto un parto difficile, per scongiurare una prognosi infausta, doveva trascorrere a riposo almeno quaranta giorni. La mammana si occupava specialmente di assistere al parto, ma aveva anche padronanza di tecniche e conoscenze terapeutiche che allargavano le sue competenze all’assistenza delle malattie delle donne e dei bambini e, talora, anche quelle di tutta la comunità, insieme alle pratiche mammana2contraccettive e abortive. La loro cultura, come quella di tutte le guaritrici popolari, si basava sulla conoscenza delle erbe, dei medicamenti e di una serie di preghiere e invocazioni nelle quali gli elementi cristiani si mescolavano con le reminiscenze del paganesimo. Una figura eminente nella rete di sostegno delle donne, essa godeva spesso di una grande autorità e considerazione, tanto che le famiglie chiedevano la sua partecipazione al rito del battesimo dei bambini che aveva aiutato a nascere. Pietro Cavallini, Natività della Vergine, mosaico a Santa Maria in Trastevere a Roma (1291). 6 Lo stesso concetto è alla base di uno degli aneddoti licenziosi attribuiti a papa Galeazzo, il noto arciprete di Lucugnano (Lecce). Questi, richiesto di invocare la divina protezione sulla marchesa di Alessano alle prese con un parto difficile (il bambino si era presentato di spalla), pregava: “Oh, mia Santa Liberata, Fa che dolce sia l’uscita, Come dolce fu l’entrata, Oh, mia Santa Liberata!” La comicità di questa supplica provocava un scoppio di ilarità nella marchesa, alla quale si ruppero le acque, mentre il nascituro subiva il moto naturale del rivolgimento e veniva felicemente alla luce. La professione non era certamente esente dai rischi e la sua attività procurò spesso, a chi la esercitava, l’accusa di stregoneria, poiché essa aveva dimestichezza con il parto e più in generale con la sfera della generazione: era sospettata di offrire i bambini in sacrificio al diavolo, di attentare alla vita del feto o alla capacità riproduttiva degli uomini. Con il tramonto del Medioevo ha inizio la storia di una relazione lunga e contrastata, fatta di ostilità e compromessi sanatori, delle autorità pubbliche, ecclesiastiche e quindi laiche, con queste antiche figure, durata fino agli inizi del Novecento. Sul finire del XV secolo, la Chiesa era divenuta sospettosa verso l’operare di queste donne, pur delegando loro, al bisogno, poteri di ordine sacerdotale. Dopo il Concilio di Trento (1563), l’autorità ecclesiastica, sebbene avocando un maggiore controllo sulla mammana, dalla quale poteva dipendere non solo la vita della madre e del 7 nascituro, ma anche quella eterna del bambino, le concesse di somministrare il battesimo nei casi di pericolo di morte del neonato. Tuttavia, una serie di documenti dei sinodi salentini prescrivono fermamente che non sia data alla levatrice la possibilità di lavorare e amministrare il battesimo senza l’approvazione del parroco. Dai documenti dell’Archivio della Curia Vescovile di Ugento (Lecce), Lucia Piccinno, nativa della medesima città salentina e ricercatrice presso l’Università di Cagliari, rivela che il vescovo Luigi Pappacoda (A. D. 1680) non trascurava di informarsi presso i suoi ministri sulle qualità morali delle mammane locali e sulle loro nozioni circa l’amministrazione del battesimo (Lucia Piccinno, Un caso salentino: analogie e discrepanze, presente in: Sortilegi amorosi, materassi a nolo e pignattini: processi inquisitoriali del XVII secolo fra Bologna e il Salento, a cura di Umberto Mazzone e Claudia Pancino. Carocci. Roma, 2008).
Congregazione generale del Concilio nella chiesa di S. Maria Maggiore a Trento. 8 Sebbene carenti di nozioni mediche, nella pratica esse dovevano essere capaci di affrontare tutte le difficoltà potenziali di una gravidanza a termine e nei casi gravi decidevano se fare intervenire o meno il medico. Se la constatazione dei «disastri» catturacausati imponeva la necessità di meglio istruirle, il vasto numero di abusive che esercitavano imponeva la necessità di regolarizzare questa arte chirurgica «minore». La documentazione in nostro possesso e le varie circolari reperite nell’Archivio di Stato di Brindisi, per quanto riguarda il periodo pre-unitario, ci informano che l’esercizio abusivo della «bassa chirurgia» (levatrici e salassatori) era molto diffuso e che i funzionari del Regno Borbonico sollecitavano continuamente sia il pagamento della tassa prevista per legge sia il sottoporsi agli esami previsti per verificare la capacità di esercitare tale attività. L’Unità d’Italia vede continuare l’insoluta questione. Il tentativo perseguito più nelle parole che nei fatti dallo Stato postunitario di eliminare le levatrici non abilitate, fallì. Le disposizioni transitorie che permettevano alle abusive di mettersi in regola, sostenendo una facile prova pratica, subirono proroghe continue fino al 1894, quando Francesco Crispi, presidente del Consiglio dei Ministri, tentò di fare applicare la legge alla lettera, interrompendo la serie delle proroghe. Tuttavia, la legge sanitaria approvata nel 1888 imponeva ai Comuni l’obbligo di fornire assistenza ostetrica gratuita alle donne più povere. Francesco Crispi al Parlamento italiano. 9 A Mesagne, cittadina della Terra d’Otranto, il servizio comunale fu regolamentato nel 1914 e vennero fissati i comportamenti e le responsabilità della levatrice condotta. Secondo l’art. 2 del Regolamento Comunale, alla levatrice aspettava il compito di seguire tutto l’andamento del parto, a meno che non si manifestassero difficoltà che imponessero la presenza del medico. In caso di sua assenza e, se si rilevava l’innalzamento della temperatura corporea della puerpera oltre i 38 gradi, era obbligo denunciare la circostanza al Sindaco e all’ufficiale Sanitario (art. 3), pena provvedimenti punitivi. Le levatrici non potevano usare strumenti chirurgici, o praticare operazioni manuali nell’utero (art 4).
Nel caso di infezione contratta da una partoriente, la levatrice doveva sospendere l’attività per almeno cinque giorni. Altre prestazioni potevano essere richieste alle levatrici da parte delle autorità: dalla certificazione di eventuali stupri subiti alla temuta o dedotta impotenza del maschio, in vista di future nozze o per l’annullamento delle precedenti. Nei secoli precedenti, l’intervento della mammana poteva essere richiesto anche dal feudatario delle città medievali per verificare la condizione di verginità. E’ tristemente noto a questo proposito che in Ceglie Messapica (alto Salento), come in tutte le altre città medievali, vigeva lo jus primae noctis. Alcuni atti notarili custoditi nell’Archivio di Stato di Brindisi informano che, nel mese di luglio del 1729, una ragazza di nome Francesca Gioia dichiarava con atto pubblico che tre anni prima era stata convocata alla corte ducale per essere sottoposta a una visita ginecologica operata da una mammana per accertare la sua verginità. 10 Ella dapprima si opponeva a questa visita, ma poi dovette arrendersi perché il padre lavorava alle dipendenze della famiglia ducale con le mansioni di giardiniere. Riconosciuto lo stupro, il duca Francesco Sisto y Britto (deceduto il 20/12/1776) pretendeva che Francesca denunciasse l’autore dello stupro, ma la ragazza, forte e coraggiosa, oppose un deciso diniego. Don Francesco non accettò di buon grado il rifiuto e pensò di potere ottenere un risultato migliore intervenendo presso il padre della stessa, ma quando anche questi rifiutò, lo rimosse in tronco dall’incarico. L’ultima conferma di questa pagina triste di storia locale viene da Antonia Leporale, la quale attesta che il 5 febbraio 1745 fu costretta a una visita ginecologica per constatare la sua verginità, dalla quale risultava che anch’essa aveva subito uno stupro. Un articolo comparso negli anni Trenta sulle pagine della rivista Lucina, periodico specialistico dell’arte ostetrica, dichiarava quanto segue: «l’atto che può condurre alla vittoria della vita sulla morte, che può fare del nuovo nato un essere sano oppure uno sventurato è quello dell’ostetrica…», cosicché, ricordando Pitagora, «…coloro che danno la vita a qualche creatura, non dovranno essere negligenti e indifferenti, ma prestare attentamente cura affinché l’arrivo alla vita di coloro che nascono divenga un momento il più gioioso possibile…».