Ricordi e cimeli di Emilio Cecchi nel brindisino (Angelo Sconosciuto)
A Mesagne cartoline e libri con dediche autografe
Alle 23,45 del 5 settembre del 1966 – 50 anni addietro era un lunedì – moriva a Roma Emilio Cecchi. Era nato a Firenze il 14 luglio 1884, «prosatore e critico, tra i fondatori della “Ronda”», hanno scritto di lui, in estrema sintesi sulle pagine di un'enciclopedia della letteratura in formato tascabile. Certamente più efficaci le poche parole, con le quali Giuseppe Petronio lo proponeva agli studenti, suscitando curiosità e invitandoli alla lettura: «Autore di liriche, di scritti critici sulla letteratura italiana, inglese, americana, di “saggi” (…), nei quali poté esprimere appieno la sua curiosità intelligente e il suo amore, raffinato e prezioso, per la “bella pagina”, valida in sé, nei suoi valori di stile».
Cinquant’anni addietro, Alberto Cavallari diede l'«Addio a un maestro» sul «Corriere d'informazione»; « È morto Emilio Cecchi» fu, invece, il titolo de «Il Giorno» all'articolo di Pietro Citati, mentre Sandro De Feo, sulle colonne del «Corriere della sera», ricordò «Il grande giornalista di “America amara”» e la nota di Enrico Falqui su «Il Tempo» diceva che «Con Cecchi la cultura ha perso un maestro». In tempi nei quali la notizia “resisteva” in pagina diversi giorni, “La Gazzetta del Mezzogiorno” ospitò prima un articolo di Luigi Maria Personè (“Principe della critica”, 7 settembre), quindi un articolo di Elio Filippo Accrocca (“Il timbro di Cecchi”, 21 settembre) già apparso su “Momento sera”, quale “intervista inedita”.
«Un meraviglioso conservatore d'energia, lucido dosatore di forze», scrisse di lui Giovanni Macchia, mentre Giancarlo Vigorelli affermò che «a differenza di tutti i letterati della sua generazione, Cecchi non è mai stato un provinciale, e fu il contrario del sedentario».
Fu agli inizi di un viaggio, peraltro, che egli vide Brindisi e l'occasione anniversaria è opportuna per riferire di tracce locali a lui collegate. La prima riguarda notazioni su questo territorio; l'altra, è costituita da una serie di frammenti ora ricondotti a nuova unità, da un appassionato bibliofilo, che dal mercato antiquario è andato raccogliendo quanto era custodito in altre biblioteche ed archivi di famiglia e che i motivi più disparati ha condotto via da lì con l'affidamento ai librai. Al momento si tratta di due cartoline illustrate e di due libri, che Cecchi inviò con dedica ad amici.
L'«originale critico», come lo definì Giuseppe Prezzolini, innanzi tutto fu a Brindisi nel 1934. Era già un nome di prima grandezza nel mondo della cultura ed a quell'anno si devono alcune «istantanee» annotate nei «Taccuini». Esse sono relative a un viaggio in Grecia, che egli intraprese col figlio Dario, allora sedicenne. Evento degnissimo di nota se quell'avvenimento restò da consegnare, assieme alla «Mon(ografia) Oppo», alla nota biografica, che lo scrittore stesso compilò – ed aggiornò sino al 1959 – considerandolo come «un foglietto che – scrisse - bisognerebbe rimeditassi spesso».
I suoi appunti di viaggio rimasero tali per anni: essi furono pubblicati integralmente su «Nuova Antologia» solo nel 1978 a cura del nipote Masolino d'Amico, mentre in forma antologica apparvero già nell'edizione dei «Taccuini», pubblicata da Mondadori e sono considerati «spunti e vibrazioni che servirono poi alle pagine fondamentali di “Et in Arcadia ego”», che egli pubblicò per Hoepli nel 1936.
A Brindisi sono dedicate poche righe, efficaci per descrivere un capoluogo messapico davvero poco in salute. Cecchi, infatti, dopo aver notato «fichi d'India e case bianche» lungo la tratta ferroviaria, che collegava Bari a Brindisi, avvertì lungo il tragitto «già un'aria macedone» e, con essa, un sentimento di «desolazione». S'imbattè, quindi, in «uomini vestiti di nero, sudati, con grandi cartelle nere», intenti a discutere «in treno gravemente, questioni di cento lire» e non potè fare a meno di notare subito dopo – quasi collegando le due immagini in un unico pensiero - «le donne tutte brutte, plumbee». Nell'essenzialità delle sue annotazioni, scrisse ancora: «Brindisi: aria di miseria, porto quasi vuoto». Non c'era, dunque, quel brulicare di gente che forse l'osservatore sperava di vedere sulle banchine; la calma piatta sul lungomare – probabilmente dovuta anche all'ora in cui osservò la scena – stamparono nella sua memoria un'immagine triste ed anche un tantino carica di rassegnazione, rimarcata dalla nuova opera, della quale Brindisi allora andava orgogliosa, anche fuori dai confini pugliesi.
«Monumento di Bartoli-Brunati, di polenta gialla, in forma di scatola di contrabbasso», annotò ancora e non si può certamente dire che, da critico d'arte quale era, Cecchi guardò favorevolmente al Monumento nazionale al marinaio d'Italia, consacrato «ma non compiuto, nel 1933», grazie all'opera dell'ing. Simoncini, su progetto dell'arch. Luigi Brunati e con calcoli del cemento armato dell'ing. Antonio Martinelli.
«Monumento di Bartoli-Brunati», scrisse soltanto, senza spendere una parola in più per lo scultore – Americo Bartoli appunto – al quale riserva solo il primo termine, annotando il binomio. E poi, si coglie facilmente una punta di dileggio nell'espressione: «di polenta gialla, in forma di scatola di contrabbasso», ben sapendo Cecchi che il monumento rappresentava un timone costruito in carparo e richiamava alla memoria un manufatto artistico costruito in Germania per ricordare gli eroi della marina tedesca e ben conoscendo anche Bartoli, del quale aveva già scritto.
Nelle restanti cinque frasi di appunti brindisini, il letterato fiorentino non fu certamente più tenero: «Bassi, come a Napoli», continuò. E poi: «Tutti a caffè, senza prendere niente», evidentemente richiamando alla memoria altri appunti di viaggio, scritti decenni e decenni prima da stranieri, che con quella frase descrivevano una popolazione nella cui mente non vi era al primo posto, o tra le priorità, la cultura del lavoro.
Brindisini indolenti, dunque? «Alle 4 e mezzo pomeridiane di giugno le farmacie non hanno ancora riaperto», sembra quasi rispondere Cecchi nelle sue note, che continuano, con un'istantanea di «colore»: «Il litigio fra due suonatori (uno cieco, accompagnato da un bambino) davanti alla trattoria». Quel discutere – animato e certamente insolito quanto ai soggetti coinvolti – assieme al serrato confronto verbale, sul treno degli uomini vestiti in nero, sono le uniche scene di azione di una realtà immobile, che il fiorentino non interpretò in chiave positiva. La riprova che quell'aria di «siesta» non piacesse a Cecchi è nella sua annotazione finale, quando si coglie un certo mutar di umore. «In cima alla scala – scrisse -, il mercato era una delle cose più interessanti: pigne di frutti di mare neri».
In una biblioteca-archivio di famiglia di Mesagne sono poi custodite due cartoline illustrate e due libri, con eguale rilegatura successiva, provenienti evidentemente dalla stessa biblioteca, i cui proprietari decisero di costituire un unico corpus delle opere dello scrittore.
Le due cartoline sono entrambe viaggiate e, non essendo possibile risalire alla data di invio dal timbro postale – in entrambe è illeggibile e una volta addirittura apposto sull'immagine della cartolina – è possibile giungerci per approssimazione attraverso altri indizi, non tutti della stessa valenza, legati al valore dell'affrancatura, alla natura della stessa, al soggetto della cartolina.
La più antica delle due, in ogni caso, dovrebbe essere quella che ritrae i Fori imperiali di Roma, affrancata con un bollo da 20 lire – quello “ordinario” della serie dell'Italia turrita – ed inviata alla “Sig.ra Marcella Contini/ 48/B viale Liegi/ Roma”. Cecchi, con la consueta, ordinata e chiara grafia, ricordando un colloquio di sua moglie con la destinataria, scrive su 11 righe: «Leonetta che ha parlato recentemente con te per telefono, mi ha dato vostre notizie, ma voglio mandarti un saluto e un augurio particolare. Se hai bisogno di libri, non far complimenti; ne ho e te ne mando volentieri, sperando che incontrino il tuo gusto. Buona Pasqua e buone feste a te ed a Ermanno, e i saluti più affettuosi dal vostro Emilio Cecchi».
La destinataria della cartolina è dunque l’attrice Marcella Rovena, la quale «dopo il matrimonio con il critico e giornalista Ermanno Contini abbandonò le scene, dove sostenne una grande quantità di ruoli secondari in veste di caratterista», anche se in molti sostengono che «soprattutto nel doppiaggio (…) diventa una delle professioniste più richieste, prestando la sua voce dal timbro particolarmente duro e sprezzante» ad attrici famose. Giusto per ricordare solo un kolossal, è della Rovena Contini la voce di Claudette Colbert in Cleopatra. Quanto a Ermanno Contini, lo si ricorda ancora come giornalista di punta de “Il Messaggero”, lì chiamato dal direttore Francesco Malgeri.
L'altra cartolina illustrata è sicuramente posteriore alla prima. Con ogni probabilità viaggiò nel secondo semestre del 1960; fu spedita da Venezia e, dall'affrancatura, si può stabilire almeno il dies a quo: è il 25 giugno, data dell'emissione dei francobolli della serie commemorativa della XVIII Olimpiade, che si sarebbe celebrata a Roma da 25 agosto all’11 settembre di quell'anno. Essa reca l'immagine del ponte di Rialto, sul culmine del quale vi è un drappo merlato con l'invito a «Visitate la mostra biennale internazionale d'arte ai giardini». Destinataria della cartolina era la «Sig.ra Emma d'Avack, 16 via di Propaganda Fide – Roma», alla quale l'«aff.mo Emilio Cecchi» inviava «tanti saluti da Venezia», con la moglie Leonetta che apponeva anche lei la sua firma, utilizzando un'altra penna.
La cartolina dovette dunque viaggiare, con ogni probabilità, nel mese di agosto di quell'anno perchè dal 18 agosto al 16 ottobre si tenne la XXX Biennale Internazionale d’Arte, la quale fu oggetto di visita da parte di Emilio e Leonetta Cecchi e si sarebbe tentati di anticipare la data di invio della cartolina ai giorni antecedenti il 25 agosto 1960. Quel giorno, infatti – era una domenica -, sulle colonne del Corriere della Sera, fu pubblicato lo scritto dal titolo «Intorno all’ “informale”», che riguarda appunto la Biennale d'Arte e, soprattutto «la pittura di Piet Mondrian e Jean Fautier». Cecchi aveva compiuto 76 anni qualche giorno prima e, come al solito, non mancherà di centrare l’argomento di un’edizione tra le più memorabili, non fosse altro perché «nel 1960, Jean Fautier riceve, insieme ad Hans Hartung, il gran premio della XXX Biennale di Venezia. Un caso anomalo rispetto alla consuetudine della rassegna lagunare che prevede la distribuzione dei premi fra un pittore e uno scultore: anche il secondo di questi, infatti, verrà assegnato a un pittore, sebbene non senza qualche contrasto».
La destinataria dei saluti è la signora senese Emma Gambicorti, moglie del giurista Pietro Agostino D’Avack, uno dei più illustri studiosi italiani di diritto canonico ed ecclesiastico, che, al culmine di una brillante carriera di studi, nel 1962, come professore ordinario a “La Sapienza”, sarebbe salito sulla cattedra che fu del suo maestro Francesco Scaduto e di Arturo Carlo Jemolo, e quindi sarebbe stato rettore dell’Università di Roma dal 13 novembre 1967 al 31 ottobre 1973.
Dalle poche parole di saluto della cartolina, emergono i lineamenti di un rapporto amicale scevro da eccessivi formalismi. D’Avack del resto non era ancora all’apice della carriera e l’invio di una cartolina doveva essere più dettato da un effettivo gesto di affettuoso ricordo che da formalismi di maniera.
Nella stessa biblioteca-archivio mesagnese sono collocati due volumi in 16°, rilegati in piena tela amatoriale con titolo su tassello al dorso. Nel primo volume - che tiene insieme “L'osteria del cattivo tempo” (1927), e “Pesci rossi” (1920) – la prima pagina bianca reca la seguente dedica: “ad Antonio e Yoi Maraini/ ricordo del loro aff.mo/ Emilio Cecchi/ Roma 23.V.1927”. Il secondo volume - che contiene solo “Qualche cosa” – sul frontespizio reca una dedica ancora più esplicita: “Ad Antonio e Yoi Maraini/ il loro affezionatiss. Amico/ Emilio Cecchi/ Roma febbraio 1932”. Antonio e Yoi Maraini dunque avevano raccolto in due volumi rilegati tutti i “saggi, capricci, fantasie, ecc.” del loro amico che aveva anche dato alle stampe 4 volumi di critica letteraria e 4 di storia dell'arte. Doveva essere davvero solida l'amicizia dei parenti di Dacia, con lo scrittore. Nel fondo Cecchi presso l’archivio Bonfanti del gabinetto Viesseux di Firenze si conservano infatti «11 pezzi» di Antonio Maraini, che compendiano un periodo compreso tra il 1915 e il 1960, mentre di Yoi Maraini ce ne sono conservati ben 9, che descrivono un lasso di tempo molto ristretto, quello compreso tra il 1918 e il 1919.
Cecchi, peraltro, delle «sculture di Antonio Maraini» aveva scritto nell'aprile del 1921, in occasione di «una mostra di sculture, disegni e mobili», che l'artista propose «nei locali dell'Arte Moderna Italiana» e, sempre nello stesso anno, in agosto, aveva segnalato «a young Italian sculptor» sul Christian Science Monitor. L'anno successivo, invece, in dicembre, aveva recensito il libro “In a grain of sand”, che Yoi Maraini aveva pubblicato a Londra.
Mentre scriviamo sembrano imminenti nuovi ingressi di cimeli cecchiani in quella biblioteca privata mesagnese. Riecheggiano, così, le parole dello scrittore che - nella splendida prosa di “Centesimi e soldi”, poi raccolti in “Pesci rossi” - aveva scritto: “Cominciai a ripensare a tutte le lettere e i fogli che avevo fatto circolare pel mondo...”.