Venerdì 13 incontro di studio su storia, culto e festa di sant’Antonio abate

Sant’Antonio abate. La festa, la storia, la tradizione” è il tema del XLIX Colloquio di studi e ricerca storica

 

organizzato per Venerdì 13 gennaio 2017, alle ore 17.00, presso la Chiesa di San Sebastiano o delle Anime (Brindisi).

Intervengono:

EUGENIO IMBRIANI (Università del Salento)

ANTONIO MARIO CAPUTO (Società di Storia Patria per la Puglia)

GIUSEPPE MARELLA (Società di Storia Patria per la Puglia)

GIACOMO CARITO (Società di Storia Patria per la Puglia)

Nel corso dei lavori GIANCARLO CAFIERO (Società di Storia Patria per la Puglia) darà lettura di opere in versi in vernacolo attinenti al tema.

Il colloquio è organizzato dal Centro Studi per la storia dell’arcidiocesi di Brindisi – Ostuni e dalla Società di Storia Patria per la Puglia – Sezione di Brindisi.

“Verrà un tempo in gli uomini impazziranno, e al vedere uno che non sia pazzo, gli si avventeranno contro dicendo: «Tu sei pazzo!», a motivo della sua dissimiglianza da loro”.

Sant’Antonio abate

Nel Martirologio Romano, alla data del 17 gennaio, n. 1, si ricorda: «Memoria di sant’Antonio, abate, che, rimasto orfano, facendo suoi i precetti evangelici distribuì tutti i suoi beni ai poveri e si ritirò nel deserto della Tebaide in Egitto, dove intraprese la vita ascetica; si adoperò pure per fortificare la Chiesa, sostenendo i confessori della fede durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, e appoggiò sant’Atanasio nella lotta contro gli ariani. Tanti furono i suoi discepoli da essere chiamato padre dei monaci ». In essenziale sintesi è così resa l’umana vicenda di sant’Antonio abate (251-357), ricordato dalla chiesa copta il 31 gennaio, corrispondente, nel loro calendario al 22 del mese di Tuba, nota soprattutto attraverso la Vita Antonii pubblicata nel 357, attribuita a sant’Atanasio, vescovo di Alessandria e scritta forse su sollecitazione dei monaci che, nel Salento, desideravano imitarne lo stile di vita. Nella Vita Sanctii Pauli primi eremita, scritta da san Girolamo circa il 375, è riferimento all’incontro di Antonio con il più anziano san Paolo di Tebe. Si colloca qui l’episodio del corvo che porta loro un pane affinché si sfamino, tema ripreso nella celebre Legenda Aurea di Jacopo da Varazze.

Riti e devozioni intersecano i due piani del fuoco e della protezione degli animali; tali pratiche ebbero sviluppo anche in connessione al crearsi di un grande polo cultuale in Europa occidentale. Le reliquie del santo, dopo un lungo peregrinare, il 1070 furono deposte dal nobile Guigues de Didier in una chiesa, appositamente costruita, nel villaggio di Motte-Saint-Didier presso Vienne, presto meta d’intensi pellegrinaggi. A garantire dovuta assistenza ai devoti provvidero, dal 1088, i monaci benedettini dell’abbazia di Montmajeur presso Arles. A iniziativa di Gaston de Valloire, in rendimento di grazie per la guarigione del figlio dal fuoco di Sant’Antonio, fu costruito un hospitium in cui operava una confraternita per l’assistenza dei pellegrini e dei malati che si trasformerà nell’ordine ospedaliero dei Canonici Regolari di Sant’Antonio di Vienne, detto comunemente degli Antoniani. L’ordine ottenne dal papa il permesso di allevare maiali poiché il grasso di questi animali era usato per ungere gli ammalati colpiti dal fuoco di Sant’Antonio. I maiali si nutrivano a spese della comunità e circolavano liberamente nel paese con al collo una campanella; non a caso l’immagine del maiale con la campanella spesso accompagna l’iconografia di questo santo. Nella religiosità popolare il maiale cominciò a essere associato al grande eremita egiziano, poi considerato patrono dei maiali, di tutti gli addetti alla lavorazione del maiale, vivo o macellato e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Durante la notte di Sant’Antonio Abate si vuole data agli animali la facoltà di parlare; nel giorno della sua festa liturgica, che scandisce in agricoltura il tempo tra le semine e i raccolti, si benedicono le stalle e si portano, sin dal medioevo, a benedire gli animali domestici.

Il santo protegge quanti lavorano col fuoco, come i pompieri, perché guariva da quel fuoco metaforico che era l’herpes zoster, comunemente chiamato fuoco di Sant’Antonio, una malattia virale a carico della cute e delle terminazioni nervose. Nei leggendari popolari si riferisce che sant’Antonio non esitò a recarsi all’inferno per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo e mentre il suo maialino creava scompiglio fra i demoni, avrebbe acceso col fuoco infernale il suo bastone a ‘tau’. In Sardegna si narra che avrebbe allora rubato, novello Prometeo, il fuoco per portarlo sulla terra e donarlo agli uomini accendendo una catasta di legna. Ancor oggi si usa pressoché ovunque accendere i cosiddetti “falò di sant’Antonio”con funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno all’imminente primavera in coincidenza con antiche ricorrenze pagane in onore della terra, della vegetazione, del ritorno alla vita. Il culto del fuoco, in tutta l’ area meridionale pugliese si accompagna, in dizione cristiana, a sacri cortei e celebrazioni; in Abruzzo si svolgono processioni in costumi ottocenteschi. La più notevole fòcara salentina è da considerarsi quella di Novoli, dove la festa è vissuta come un appuntamento corale, oggetto anche di un documentario della National Geographic. Di anno in anno i costruttori della fòcara s’impegnano a variarne la forma, dotandola a volte di un varco centrale, la galleria, che poi è attraversata dal simulacro del santo condotto in processione.

Le ceneri, raccolte nei bracieri, servivano a riscaldare la casa e, con apposita campana fatta con listelli di legni, per asciugare i panni umidi.

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