Uso e abuso della storia (di Domenico Urgesi) - 1a puntata

(… in riferimento alla “giornata della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana" - mozione approvata il 4 luglio 2017 dal Consiglio Regionale della Puglia)

 

Una recente mozione approvata dal Consiglio Regionale della Puglia il 4 luglio 2017 ha portato in superficie una questione che cova sotto la cenere della mentalità “anti-nazionale” degli italiani; forse sarebbe meglio dire “localistica”: il municipalismo. Penso questo perché mi è venuto in mente un aneddoto raccontato dal professor Giuseppe Sergi, grande storico del Medio Evo, nel volume: Antidoti all’abuso della storia (Liguori Editore, 2010).

Nel comune di Tonco, nell’Astigiano, alla fine di aprile si svolge una manifestazione in costume. Essa comprende il “rito del tacchino” ossia “La giostra del pitu”; che consiste nel dare la caccia ad un tacchino, perché incolpato di tutti i mali avvenuti in paese nell’anno precedente. Un evidente rito contadino propiziatorio, collocato all’inizio della stagione dei raccolti. (A proposito, questo mi ricorda un po’ il rito della “papara”, che si svolgeva a Mesagne; ne ha scritto qualcosa Marcello Ignone, e lo invito ad approfondire la faccenda).

La “giostra” di Tonco è preceduta da un corteo storico, che rievoca un personaggio molto importante nella storia italiana e non solo, il cavaliere frà Gerardo, fondatore – attorno all’anno 1050 – dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, divenuto poi Sovrano Ordine Militare di Malta.

Scrive Sergi:

Il Sindaco (di Tonco) è stato doverosamente avvertito da uno storico molto accreditato (Renato Bordone) di due errori. Il rito del sacrificio di un tacchino non può essere medievale (come è noto i tacchini sono stati importati dal nuovo mondo). Inoltre, il corteo con l’orgogliosa esibizione di Gerardo, fondatore dell’ordine gerosolimitano, come fosse nativo di Tonco, si fonda sulla lettura sbagliata e un po’ ridicola di una fonte: il cronista Guglielmo di Tiro dice “… tunc (allora) hospitale regebat”.

Egli non vuole affatto riferirsi alla località dell’Astigiano, ma dare solo un’indicazione temporale, poi volutamente forzata da falsificatori di documenti fra Cinquecento e Ottocento. Ebbene, gli amministratori locali prendono queste due rettifiche come un’offesa, le ritengono di disturbo al turismo e proseguono come prima.

Il cavaliere Gerardo de Sasso (amalfitano) è, così, divenuto Gerardo da Tonco. Come dire: la storia scritta per decreto sindacale; un fenomeno che sta crescendo e coinvolgendo i Comuni italiani (grandi e piccoli), tra i quali possiamo annoverare anche Mesagne (dove, per un analogo decreto sindacale, si falsifica continuamente il più noto monumento).

Uno dei tanti esempi di municipalismo? conflittualità campanilistica? Mi pare molto di più.

Si tratta di un fenomeno che ha radici nel lontano passato; basti pensare alla frammentazione degli Antichi Stati nell’Italia del Nord, tra Ducato di Milano, Ducato di Savoia, Granducato di Toscana, Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla; e la Repubblica di Genova, di Venezia, ecc.; e lo Stato della Chiesa. Il Sud ha avuto Bizantini, Angioini, Aragonesi, dal 1503 al 1734 le dominazioni spagnole (con intermezzi francesi, austriaci e veneziani); poi i Borboni; infine i Savoia. Nei 200 anni di dominazione spagnola, il Mezzogiorno fu terra di rapina; e, nel Cinque-Seicento, terra di sfruttamento da parte dei ricchi mercanti (lombardi, genovesi, veneziani, olandesi, ecc.) ai quali gli spagnoli vendettero i feudi meridionali per spremerne le ricchezze. Ciò diede vita ad una nuova classe di nobili parvenues, gli Albricci, i Doria, i De Angelis, gli Imperiale, i Vanalest, i quali continuarono nell’annoso sistema dello sfruttamento feudale, dando così la possibilità a banchieri e mercanti forestieri di approfittare degli appalti necessari al funzionamento di tale sistema. Specialmente nelle regioni meridionali, si perpetrò un sistema economico-sociale basato su diritti feudali quali: gabelle, donativi, decime, tasse e balzelli, diritti sulla giustizia, tasse di fiera, ecc. Molte delle tasse che oggi paghiamo hanno la loro origine in quelle imposizioni.

Non solo! Si pensi che non era permesso spostarsi liberamente da un paese all’altro; così, per andare da Mesagne a Latiano, bisognava munirsi di un lasciapassare; se si portavano delle merci, bisognava pagare dazi e altre varie imposizioni (che variavano da paese a paese). Non parliamo poi delle unità di misura: anch’esse variavano da paese a paese; e così anche i prezzi. Nelle giornate di fiera, poi, gli addetti alla giurisdizione di fiera approfittavano come potevano del loro ufficio. Ma gli abusi erano correnti in tutta l’Amministrazione della Giustizia; si veniva incarcerati per niente; e se si aveva sufficiente denaro per pagare, allora il procedimento faceva il suo corso, altrimenti si marciva. Lo descrive magistralmente Vincenzo Cuoco, in un articolo pubblicato sul «Corriere di Napoli» del 15 giugno 1808:

l’impiegato (ossia il giudice) regolava i suoi interessi «…quanto più gli riusciva più comodo, cioè quanto era per lui minore la spesa, e maggiore la speranza di lucro»; egli poteva sperare “sia se l’accusatore fosse ricco, sia se ricco fosse il reo”. La legge consentiva di trasformare qualsiasi pena in un introito pecuniario; e in conclusione, il ricco avrebbe pagato, mentre il povero avrebbe espiato la pena. In queste poche parole è esemplificato quello che era il carattere fondamentale di uno “Stato di Polizia”, non di uno “Stato di Diritto”.

Il sistema rimase sostanzialmente immutato sotto i Borboni, dal 1734 al 1806, nonostante alcuni tentativi di riformatori quali Filangieri, Genovesi, Galanti, Delfico, Palmieri; nonostante i tentativi rivoluzionari del 1794-1799 e la breve Repubblica Napoletana, che videro martiri (anti-borbonici) anche molti pugliesi, tra i quali Emmanuele De Deo di Minervino Murge, Ignazio Ciaia di Fasano, Antonio Sardelli di San Vito, il leccese Oronzo Massa, il casaranese Francesco Astore, il famoso Ignazio Falconieri di Monteroni.

Sin da allora, gli innovatori (tra cui anche molte persone di Chiesa) dovettero combattere contro i briganti sanfedisti, il cui motto era: “Muore la libertà, viva sua Maestà”. Tanto per ricordare qualche caso pugliese:

Altamura resistette all’assedio dalle orde borboniche comandate dal cardinal Ruffo; per questo è chiamata la “leonessa di Puglia”. Espugnata il 10 maggio 1799, fu saccheggiata barbaramente: ne ricordiamo alcune vittime: don Nicola Popolizio, torturato e ucciso; nella cappella di S. Giuseppe don Celio Colonna venne sgozzato mentre pregava davanti all’altare; così don Giuseppe Di Leo; e il giovanissimo Giovanni Firrao, colpevole di aver partecipato all’albero della libertà a Matera.

Martina Franca era stata già sconquassata il 17 marzo dai filo-borbonici comandati dai due avventurieri De Cesare e Boccheciampe: alcune vittime furono Angelo Martino Desiati, il medico ottuagenario D’Arcangelo, Mastro Michele Ceglie. Ho citato solo alcuni crimini borbonici; le vicende pugliesi (per chi volesse approfondire) furono ricostruite dagli storici Giuseppe De Ninno, Antonio Lucarelli, Francesco Carabellese; ma si veda anche Pietro Palumbo; e anche le Memorie di Sigismondo Castromediano.

Solo nel 1808 l’occupazione napoleonica abolì i privilegi della feudalità e introdusse lo stato di diritto, con l’adozione dei codici giuridici di stampo illuministico.

Ripristinati (dagli austriaci) i Borboni nel 1815, i vecchi feudatari tentarono di tornare al vecchio sistema; ma ormai una nuova classe di borghesia (e nobiltà) illuminata si era affrancata dalla sudditanza al sistema feudale. I primi moti carbonari – si ricordi – avvennero in Puglia, e per la precisione nella Terra d’Otranto (nel 1817), ad opera di personaggi quali Romualdo Geofilo, Giambattista del Tufo, Marcello Scazzeri (su questo abbiamo già scritto, e qui sorvoliamo). Seguirono, in tutto il Regno, i moti anti-borbonici del 1820-21, del 1830, del 1848, del 1860; partivano, quei moti, dalla borghesia illuminata e mercantile che aspirava allo stato di diritto; erano diretti da un’élite, ma a volte coinvolgevano il popolo contadino; altre volte, invece, la nobiltà rurale riusciva a mobilitare il popolino contro gli innovatori: è il caso delle sfortunate spedizioni dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane.

Gli innovatori chiedevano una Costituzione, uno Stato di Diritto; promesso dai Borboni, ma non mantenuto. E anche quando una Costituzione fu temporaneamente concessa, essa non consentiva un reale contributo delle nuove classi alla formazione del governo “nazionale”. Si badi che, sotto i Borboni, la “nazione” era considerata, sia dal punto di vista giuridico che da quello del comune sentire, “la nazione napolitana” , ossia il Regno di Napoli. La “nazione italiana”, almeno al Sud, era davvero un sogno di pochi, quali Castromediano, Libertini, Pisanelli; e Francesco De Sanctis, Stanislao Mancini, ecc. Ciò che veramente a tutti premeva (tranne che ai “nobili viventi” e loro seguaci), era lo Stato di Diritto, e le riforme economiche.

Fu stoltezza dei Borboni non capire la situazione. Le élites, il notabilato, si sarebbero accontentati di una monarchia borbonica costituzionale; ma visto che i Borboni non erano pronti, allora si adeguarono ai Savoia (e, quindi, alla nazione “italiana”). Alcuni continuarono ad essere sanfedisti; ma la maggior parte optarono per il nuovo regime. Fu un’annessione, chiaramente; ma fu ratificata dai nuovi ceti emergenti.

In quest’ambito avvenne dunque il nuovo brigantaggio e le conseguenti spedizioni militari anti-brigantesche (in particolare gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo); e la deportazione, sulle Alpi, di molti militari borbonici fatti prigionieri. E qui si apre il tema (vasto) dei crimini della monarchia Sabauda (ma anche della fragilità dello Stato liberale ottocentesco).

Del primo decennio sabaudo, vari storici illustri in anni passati (ancora Lucarelli, ma anche Franco Molfese e Alfonso Scirocco) e recentemente Roberto Martucci, ne hanno messo in evidenza i caratteri. Peraltro, basterebbe leggere il famoso romanzo: Il gattopardo (Tomasi di Lampedusa), per rendersi conto del clima e delle aspettative suscitate dalla spedizione dei Mille (compreso l’eccidio di Bronte, perpetrato proprio dai garibaldini contro le masse contadine che avevano preso sul serio la distribuzione delle terre). Le speranze non sempre furono soddisfatte, tanto che si parlò di Risorgimento tradito; e lo stesso Garibaldi ne fece le spese.

Ovviamente, tutte le conseguenze della forzata unificazione, sia dal punto di vista economico che sociale e politico, sono state descritte e studiate in innumerevoli saggi. La Storia non è ricostruibile con una formula matematica; spesso gli eventi si svolgono in maniera contraddittoria. Bisogna studiare i documenti, distinguere il falso dal vero, con metodo scientifico. E capire, anche, come è stata ricostruita da chi ci ha preceduto. Sull’unificazione italiana non basterebbero dieci pagine di bibliografia; qui sintetizziamo (con temerario ardimento!): è unanimemente accettato che fu un’operazione politico-militare “fortunata”; che nelle regioni meridionali si determinò un’area di sottosviluppo; ma è anche opinione consolidata che gli effetti positivi furono maggiori di quelli negativi.

Mi si perdoni questa rapida carrellata; ma probabilmente, la mozione approvata il 4 luglio 2017 dal Consiglio Regionale pugliese nasce dall’ignoranza (oppure dalla superficialità; anzi, mi auguro che si sia trattato di semplice “distrazione”) di queste nozioni basilari. La esamineremo nella prossima puntata.

Domenico Urgesi (Presidente della Società Storica di Terra d’Otranto, Consigliere regionale della Società di Storia Patria per la Puglia)

1-continua

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