“Giornata della memoria per le vittime dell’Unità d’Italia” oppure “Giornata per i Borboni”?- 2a puntata (Domenico Urgesi)

Uso e abuso della storia (2)

Ricapitoliamo, e ripassiamo un po’ di Storia: nel Regno di Napoli, il regime feudale era sopravvissuto anche alla rivoluzione napoleonica; e ciò aveva rallentato la mobilità sociale ed economica rispetto a quanto avveniva nella maggior parte delle monarchie costituzionali europee. In parole povere, nello Stato borbonico l’ascensore sociale era stato molto lento, se non frenato. Ma il decennio francese (1806-1815) aveva esportato anche al Sud gli ideali illuministi; e aveva diffuso la coscienza della cittadinanza in alternativa alla sudditanza (spesso si usava l’appellativo di cittadino prima del nome, a sua volta francesizzato). La carboneria ne fu un lascito e costituì il primo fenomeno “di massa” italiano (pur operando in segreto), che ebbe continuità per un cinquantennio. Ugualmente, ma con segno opposto, operarono i nemici dei carbonari (calderari, trinitari, ecc., appoggiati dal Governo borbonico). Ci fu, per 50 anni, una guerra civile strisciante (segnalo gli studi di Antonio Lucarelli, Pietro Palumbo; per Mesagne, vedi Giovanni Antonucci; in essi vi è un’ampia bibliografia su tutti i paesi e città della Puglia).

Nel biennio 1860-61 avvenne, al Sud, un avvicendamento epocale: la monarchia assoluta dei Borboni fu sostituita dalla monarchia costituzionale dei Savoia. Fu un trauma per il vecchio regime: da un lato molti baroni, ex-baroni, ricchi massari e proprietari terrieri erano spaventati dai proclami rivoluzionari dei garibaldini (un pericolo più propagandato che effettivo); da un altro lato la gran parte dei commercianti, artigiani, professionisti (il nuovo notabilato) ne erano entusiasti: si aprivano nuove prospettive di ascesa economica e sociale. Chi più chi meno aveva, però, provveduto ad intrattenere buoni rapporti con i rappresentanti locali dei nuovi “padroni”. Chi non era affatto contento della nuova situazione era la Gerarchia ecclesiastica (ma singolarmente, molti preti e monaci abbracciarono il nuovo regime).

In mezzo c’era un altro vasto strato sociale: quelli che non avevano né proprietà, né capitali; esclusi, quindi, da qualsiasi ascensore sociale di tipo stabile (e quindi possibili gregari ora dell’una ora dell’altra fazione).

Ora, tutto questo non avvenne in maniera lineare: ci furono aspri contrasti in ogni paese e città, tra città e città; e cominciò la “resistenza” dei più accesi lealisti-legittimisti-sanfedisti, un po’ come nel 1799. La maggior parte dei Sindaci e Decurioni si affrettarono a dichiarare obbedienza ai Savoia; a volte con l’alleanza dell’Arciprete. Avvenne quel che era avvenuto ad ogni cambio di Signore: le autorità cittadine si affrettavano a rendere obbedienza al nuovo Governante, e contemporaneamente lo supplicavano di riconoscere i privilegi di cui godevano le loro Città e di non imporre nuove tasse. Così nel passaggio dagli Svevi agli Angioini, da questi agli Aragonesi, fino ai vari Francesco e Ferdinando Borbone.

Così anche con i Savoia; ma in alcuni casi, per vari motivi, si determinò una specie di enclave borbonica: avvenne a Casalduni e Pontelandolfo, in provincia di Benevento, dove dei folti contingenti di ex-militari borbonici e di civili “briganti” si erano acquartierati, sostenuti dai notabili locali. La resistenza borbonica, comunque, alleata o meno con i “briganti”, era ramificata a macchia di leopardo  un po’ dappertutto e anche nei territori della Puglia. Si badi: il termine “brigantaggio” non è così semplice; racchiudeva in realtà elementi di tutti i tipi e di tutti gli strati sociali, ma fondamentalmente – a guardarli oggi, con occhio critico e spassionato – gli esclusi dalle prospettive di avanzamento sociale promesse dal nuovo regime, con forte ispirazione anarcoide.

Però, mancando questa volta un cardinal Ruffo che facesse da collante, si determinò una specie di guerriglia, in cui ogni banda si auto-gestiva. In risposta a questa guerriglia, a Casalduni e Pontelandolfo, il 14 agosto 1861 i bersaglieri commisero un eccidio di massa; li incendiarono, li devastarono, andando ben oltre il ristabilimento del nuovo ordine. Questo orrendo crimine, imposto dei Savoia, non fu mai punito. In ambito storico si discute se le vittime furono 15 o 200; pare che la seconda cifra sia molto esagerata (quelli che erano in salute fuggirono), ma conta poco: i due paesi furono distrutti, con un’anticipazione sorprendente di metodi tipici delle stragi naziste.

Bisogna aggiungere che, in generale, il nuovo regime sabaudo fu centralista quanto il vecchio; ciò contribuì a far sentire il nuovo Stato come lontano dai cittadini, a non attutire il sentimento anti-statale e anti-nazionale prevalente nelle popolazioni meridionali. Come sappiamo, questo sentimento è esploso, in varie occasioni, con l’assalto ai municipi, visti come emanazioni periferiche del Governo centrale. Tuttavia, nonostante tutto, il processo di “nazionalizzazione delle masse” andò avanti per tutto l’Ottocento (in tutta l’Europa), fino a giungere alla mobilitazione nazionalistica della prima Guerra Mondiale: i Savoia (con i loro cantori) la chiamarono IV guerra d’indipendenza.

Anche lì, dopo Caporetto, i governanti promisero la riforma fondiaria per distribuire la terra ai contadini; ma come sappiamo, ben poco di quelle promesse fu poi mantenuto (bisognerà aspettare la Repubblica per vederla realizzata; e con ulteriori martiri). Finita la guerra, crebbero le leghe, le società di mutuo soccorso, le case del popolo. E, in contrapposizione, furono creati i fasci, le squadracce; nel 1799 si chiamavano sanfedisti, nel 1820 calderari, nel 1920 furono fascisti.

Ovviamente, in un secolo, le modalità di funzionamento della società erano cambiate: si era passati dalla società di ceto alla società di massa; e dalle varie forme di monarchia alle dittature di massa (altrimenti detti totalitarismi), con il ritorno allo “Stato di Polizia”. Con tutto quello che implica dal punto di vista dell’economia, della mobilità sociale e della identificazione simbolica; ma il motore  era lo stesso: inclusione/esclusione dall’ascensore sociale; e si chiamava lotta di classe.

A buona ragione, molti resistenti anti-fascisti ispirarono il loro operato a Mazzini e Garibaldi e lo chiamarono “secondo Risorgimento”; nel secondo dopoguerra era normale, per vari storici, parlare di lungo Risorgimento (dal 1799 al 1946); un esempio vicino a noi, di lunga durata, ovvero di “persistenza del passato”; oggi qualcuno sta riprendendo quel filo. E mi viene in mente l’usanza che aveva Beppe Patrono, noto e famoso anti-fascista brindisino, di salutare i suoi amici con l’appellativo cittadino (come l’ho ascoltato io, 49 anni fa): “cittadino Antonio!”; e Antonio rispondeva: “cittadino Beppe!”; sottolineava, con ciò, in maniera emblematica, il fatto che la resistenza anti-fascista avesse continuato il processo democratico iniziato nel 1799.

Alla fine del ‘900, i processi di inclusione/esclusione ebbero una ulteriore trasformazione e complicazione, l’ascensore sociale si eclissò e divenne sempre più un “ascensore individuale”; la liquefazione dei grandi ideali solidaristici lasciò il passo alle ideologie agonistiche; si pose l’accento sull’individuo artefice del proprio successo; la manipolazione delle coscienze divenne “scientifica”; prevalse l’americanizzazione della vita, ecc. E la sfiducia nelle istituzioni condusse all’idea (non dichiarata ma praticata) di “farsi giustizia da sé”; crebbe lo spirito dell’intolleranza, ecc. ecc.  (ma questa è un’altra storia, quella in cui siamo immersi).

E tuttavia, anche nel vorticoso presente, la nostra identità è ancora erede del passato; siamo fieri di essere italiani, della nostra nazione, dei nostri beni culturali e paesaggistici; e allo stesso tempo, in maniera contraddittoria, siamo stanchi dello Stato, del potere nazionale e di quello sovra-nazionale. Siamo fieri della nostra Regione, ma lo siamo ancor di più del nostro paesello; se c’è da scegliere tra Mesagne e Bari, penso che al 90 % i mesagnesi scegliamo Mesagne. Siamo talmente stanchi dello Stato centrale, che alcuni vedono di buon occhio gli Stati dell’Antico Regime. In questa temperie culturale, non c’è da sorprendersi se qualcuno si inventa la ”giornata dei Borboni”.

E veniamo, dunque, alla mozione – proposta dal Movimento delle 5 stelle – approvata il 4 luglio 2017 dal Consiglio Regionale della Puglia. Ha fatto tanto scalpore, ma l’informazione è stata molto ridotta.

La riporto integralmente, così come pubblicata sul sito del Consiglio Regionale:

IL CONSIGLIO REGIONALE

Premesso che:

  • l’unità d’Italia costò la vita di almeno 20 mila meridionali, sebbene autorevoli storici annoverano finanche 100 mila vittime;
  • numerosi paesi furono rasi al suolo. In particolare si ricorda la strage di Pontelandolfo e Casalduni;
  • nella maggior parte dei testi scolastici e universitari le pagine più oscure della storia d’Italia sono appena annoverate;
  • non esiste una giornata ufficiale della memoria dedicata ai meridionali che perirono in occasione delle procedure di annessione del Mezzogiorno,

IMPEGNA

il Presidente e la Giunta regionale:

  • a indicare il 13 febbraio come giornata ufficiale in cui si possano commemorare i meridionali che perirono in occasione dell’unità, nonché i relativi paesi rasi al suolo;
  • ad avviare, in occasione della suddetta giornata della memoria, tutte le iniziative di propria competenza al fine di promuovere convegni ed eventi atti a rammentare i fatti in oggetto, coinvolgendo anche gli istituti scolastici di ogni ordine e grado.

Il Comunicato Ufficiale ci informa che la mozione è stata approvata a maggioranza, con il voto contrario dei consiglieri Borraccino, Cera, Liviano D’Arcangelo, l’astensione del consigliere Gatta - non partecipano al voto i consiglieri Colonna e Pentassuglia (sono risultati assenti dall’Aula al momento del voto il consigliere Congedo del Gruppo Misto e la consigliera Franzoso).

Mi son documentato, un po’ come mio solito, e ho scoperto che la mozione era stata presentata da Antonella Laricchia (M5S) il 20 febbraio scorso. Poi è slittata fino al 4 luglio. Perciò, nessuno può dire che si è trattato di una cosa improvvisa. Sul sito del Consiglio regionale, molto ben fatto, c’è anche il resoconto della seduta del 4 luglio (vi indico il sito: http://intranet2015.consiglio.puglia.it/applicazioni/cedat85/streaming/sedute/10leg_seduta_66.html). L’iter della mozione Laricchia è durato in tutto 6 minuti e 12 secondi. Per 4 min. e 9 sec. ha parlato  la relatrice; per 32 sec. Il Presidente Loizzo; per 23 sec. Il Presidente Emiliano; per 33 sec. Liviano D’arcangelo. Punto. Dopodiché hanno votato, col risultato di cui sopra.

Ora, sono lampanti alcune incongruenze in questa mozione: 1-nella premessa si fa riferimento  alle “procedure di annessione”; nella parte decisionale, invece, si parla di “occasione dell’unità”.

2-Sempre nella premessa si fa riferimento a Casalduni e Pontelandolfo; esse furono saccheggiate il 14 agosto 1861. La mozione, invece, le vuole commemorare il 13 febbraio. Che c’entra il 13 febbraio con l’eccidio savoiardo?  Tanto più che in questi due paesi l’eccidio viene commemorato da alcuni anni, proprio il 14 agosto. Allora, il Cons. Reg. Pugliese ha voluto forse fare uno sgarbo agli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo?

Ho indagato a fondo e… ne riparliamo nella prossima puntata.

Domenico Urgesi     

(Presidente della Società Storica di Terra d’Otranto

Consigliere regionale della Società di Storia Patria per la Puglia)

                                                                                                                                  2-continua

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