La Biblioteca di Mesagne – nel 150° anniversario – 3a puntata bis (di Domenico Urgesi)

Giovanni Pascoli, il Socialismo, Ugo Granafei, Gramsci e la guerra italo-turca.

 

Mi sia consentita una breve e sintetica digressione; ma è una piccola deviazione, in un ramo carsico della vicenda connessa alla Biblioteca popolare “Granafei”.

Nella puntata precedente abbiamo visto come era stata delineata, nel 1913, la Biblioteca del Futuro mesagnese: patriottica, nazionalistica, combattente. In quest’ottica, l’intitolazione a Ugo Granafei era la cosa più azzeccata che si potesse fare.

Le argomentazioni di Chimienti e di Criscuolo traevano origine dai discorsi dei politici liberali, quali Giovanni Giolitti, ma soprattutto esponenti del nazionalismo risorgimentale quali Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Alfredo Rocco e l’immancabile D’Annunzio. Fu Enrico Corradini che enunciò per primo la teoria dell’Italia come “nazione proletaria”: secondo questa idea, l’Italia era una delle nazioni più povere in mezzo alle nazioni europee ricche e “plutocratiche”, che sfruttavano i poveri emigranti. Con un salto mortale triplo, Corradini sosteneva che il colonialismo equivaleva, quindi, al socialismo; veniva inventato il “socialismo nazionale”. Inoltre, per Corradini

“risolvere la questione del Mezzogiorno e occupare la Tripolitania non sono due atti divergenti, sono due atti convergenti”.

Questa idea era stata già delineata, ma rimasta in privato, da Giovanni Pascoli, il poeta del “fanciullino”, esponente del socialismo umanitario. Pascoli la espose pubblicamente il 26 novembre 1911, con il famoso discorso «La grande proletaria si è mossa», in cui giustificava l’avventura coloniale dicendo che finalmente i lavoratori italiani, costretti a emigrare all'estero, avrebbero invece trovato in Libia terre fertili nella loro patria, ossia la “quarta sponda”:

[…] Là i lavoratori saranno, non l'opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria.

[…] Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati. Anche là è Roma.

La Libia è erroneamente descritta da Pascoli come un paese favorevole alla colonizzazione italiana, perché contrario ai turchi. Le potenzialità che questa terra offriva erano però – secondo lui – sprecate dall’inerzia e dall’arretratezza delle popolazioni locali, e gli italiani avevano il dovere “civilizzatore” d’intervenire per sfruttare a pieno il territorio, portandovi cultura e progresso. Tesi già sostenute dai Giolittiani (ma… non vi ricordano qualcosa di recente?).

Si avviava, così, il disfacimento del pacifismo socialista italiano, che pochi anni dopo avrebbe aperto la via alla partecipazione italiana alla Grande Guerra.

Pascoli, in compagnia di buona parte dei politici liberali, era convinto che i libici avrebbero accolto a braccia aperte l’esercito italiano, portatore di libertà e civiltà.

È in questo discorso che Pascoli cita i morti di Sciara Sciatt, tra i quali il mesagnese Ugo Granafei:

[…] Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi, umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per ciò che non esisteva ancora!

[…] Andate a consolare i vinti! O Bianco, santa primizia della guerra, o Grazioli, o De Lutti, o marinai di Tripoli e Ben-Ghazi, consolate i morti di Lissa! O Bruchi, o Solaroli, o Granafei, o Faitini, o Flombert, o Orsi, o Bellini, o Silvatici, o trecento caduti in un’ora, consolate i morti di Custoza!

Il discorso intero lo si può trovare facilmente su internet, ve lo consiglio. Spaventoso discorso! – si potrebbe dire oggi, col senno di poi. E aggiungerei, anche, con dispiacere: discorso insulso; così scrisse il socialista milanese Paolo Valera al filantropo Ernesto Moneta, il quale nel 1907 aveva ricevuto il premio nobel per la pace, e nel 1911 si era schierato per la guerra libica.

Ma già nel 1911 si levarono forti le voci di quanti si opposero all’avventura coloniale.

Di avventura si trattava, poiché in realtà, né Giolitti, né i vertici militari, erano consapevoli della situazione reale della Libia, sia dal punto di vista militare che da quello politico-sociale. Nei primi mesi del 1911, una insistente campagna di stampa aveva illuso la classe dirigente italiana che i nostri soldati avrebbero trovato l’alleanza delle tribù arabe contro gli occupanti turchi. Solo la battaglia di Sciara Sciatt gli aprì gli occhi, facendogli vedere una resistenza libica anti-coloniale, che durò fino al 1931, quando fu ucciso Omar al-Mukhtār, il capo della resistenza libica.

Le classi dirigenti italiane o, per essere più precisi, la grande industria e il capitalismo finanziario, erano ansiose di inserirsi nella conquista delle colonie, impresa nella quale arrivavano ben ultime, poiché nell’Ottocento non erano in grado, anche perché impegnate nell’Unificazione. Ora volevano approfittare dell’incipiente disfacimento dell’impero ottomano, che già stava vivendo la sua crisi nei Balcani, dove si stava fronteggiando con l’impero austro-ungarico. E chi erano, più precisamente, queste classi dirigenti?

Scrive V. Nocentini (2013): «[…] erano i camion della FIAT, per esempio, che sfrecciavano nel deserto africano, ed erano dell’Ansaldo di Genova le navi e i traghetti che iniziarono a solcare il Mediterraneo e a collegare la Sicilia con il porto di Tripoli. Così come italiana era l’artiglieria dei soldati, prodotta dalla Breda, dalla Dante Ferraris e dalla Vickers-Terni».

E chi li sosteneva in Libia? Erano i libici oppure gli interessi del Banco di Roma, longa manus della finanza cattolica, che aveva fatto rilevanti investimenti in Libia?

Scrive ancora Nocentini: «I giornali cattolici, L’Avvenire d’Italia prima di tutto, erano sempre stati anti-giolittiani, ma quando scoppiò la guerra furono tutti a favore del presidente del consiglio e della sua personale impresa in Africa. In definitiva, le armi e la violenza furono pragmaticamente usate per legare il nazional-patriottismo ad un progetto strategico di intesa Stato-Chiesa e di riallineamento dei cattolici allo Stato liberale».

L’occasione del cinquantenario dell’unificazione scatenò la bagarre politica e mediatica che permise a Giolitti di dichiarare la guerra alla Turchia. Le relazioni dei vertici militari, peraltro, sostenevano che la conquista della Libia sarebbe stata una passeggiata. Il disastro di Sciara Sciatt dimostrò, invece, tutta l’impreparazione politico-diplomatica e militare dei vertici italiani.

Questa situazione era, però, già chiara nel 1911 agli esponenti più accorti della politica e della cultura italiana.

Secondo Luigi Einaudi tale guerra non era, infatti, una guerra di conquista per le incalcolabili ricchezze esistenti, così come veniva presentato sulla stampa, o “un’azione solidale di tutti per un’impresa di civiltà”. Essa era “la spregiudicata alleanza fra politica, finanza e industria per organizzare uno Stato, traendone anche profitto economico”.

Gaetano Salvemini si oppose tenacemente alla guerra; definì la Libia "uno scatolone di sabbia". Contrari furono i giovani socialisti, in particolare Amedeo Bordiga, ma anche Benito Mussolini (destinato poi a diventare il campione dell’interventismo e del nazionalismo), e una parte dei repubblicani guidati da Pietro Nenni, che tentarono di bloccare la guerra con dimostrazioni e scioperi di massa. La CGL proclamò uno sciopero generale di 24 ore per il giorno 27 settembre 1911; ma fu un fallimento. Il 14 ottobre Mussolini e Nenni furono arrestati e reclusi alcuni mesi nel carcere di Bologna.

Secondo Antonio Gramsci (ne parla ex-post, attorno al 1930, nei Quaderni del carcere), la Guerra di Libia dette agli intellettuali post-risorgimentali quello che mancava loro:

“un centro di unificazione e centralizzazione ideologica e intellettuale,” risultato di una “omogeneità, compattezza e nazionalità della classe dirigente”.

Secondo illustri storici (Cardini, ecc.) la guerra di Libia è stata la scintilla che ha acceso la miccia che ha dato fuoco alle polveri della Prima Guerra Mondiale.

La guerra di Libia del 1911-12 è stata anche definita, sulle orme di Gramsci, «primo moderno legame fra politica, economia e stampa con l’obiettivo di creare quella collettività nazionale che il Risorgimento aveva mancato» […] «I giornali, le riviste, le piazze, i teatri, l’Italia tutta sentiva in quel preciso momento il bisogno di parlare e scrivere della Libia.»

Sui risultati di questa egemonia intellettuale è sferzante Salvemini nel 1914:

“Sia il quando, sia il perché, sia il come della impresa libica non si spiegano, se non tenendo presenti la incultura, la leggerezza, la facile suggestionabilità, il fatuo pappagallismo delle classi dirigenti italiane”.

Sorprende la leggerezza con la quale ancora oggi viene affrontata la questione libica; a titolo di esempio, solo alcuni mesi fa la ministra della Difesa diceva che eravamo pronti ad intervenire in Libia (!?); nello stesso tempo, qualcun altro diceva di andare a bombardare i barconi nei porti libici. Sembra di essere tornati indietro di 100 anni!

Ma forse non sorprende affatto: lo stato confusionale del 1911 lo si ritrova in parte nello stato confusionale odierno; Salvemini scriveva ancora, nel 1914:

“…l’Italia nel 1911 si annoiava. Era disgustata di ogni cosa. I partiti democratici erano discesi all’ultimo gradino del pubblico disprezzo...qualunque cosa era meglio che questa stagnazione universale...”.

Ovviamente, le analogie finiscono qui; ma bisognerebbe forse rifletterci?

Ora, è difficile pensare che i valori dell’Italia patriottica, nazionalistica, combattente (simboleggiati da Ugo Granafei) possano ispirare i giovani del tempo presente. Tanto più in un periodo in cui la formazione storica in ambito scolastico (e non solo) è approssimativa, deformata e deformante, a volte condizionata dalla teatralità e spettacolarizzazione. La storia del Novecento è poco studiata a scuola, se non per luoghi comuni, ancorati a criteri narrativi oggi anacronistici e a contenuti antiquati; ma le basi del presente stanno proprio lì, dove sono nate molte questioni ancora aperte e irrisolte.                                                       (3bis-continua)

Domenico Urgesi

Per offrirti il miglior servizio possibile questo sito utilizza cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego in conformità della nostra Cookie Policy.