Luciano Violante e il declino delle democrazie senza memoria (Giovanni Galeone)

Circa un anno fa il Presidente ungherese Viktor Orbàn fece una dichiarazione tanto esplicita quanto sottovalutata:

“dobbiamo abbandonare i metodi e i principi liberali nella nostra società, stiamo costruendo uno Stato volutamente illiberale, i regimi autoritari come Russia, Cina, Turchia sono il futuro”.

In alcuni paesi del mondo si assiste al disallineamento tra democrazia e liberalismo: emergono sempre più leader che si avvalgono del consenso popolare per porre limiti a diritti fondamentali di libertà dei cittadini.

Lecito chiedersi allora qual’ è lo stato di salute della democrazia nel mondo. E’ il tema affrontato da Luciano Violante nel suo ultimo libro “Democrazie senza memoria”, edito per i tipi Einaudi. Un volumetto di 130 pagine, agile ma denso di analisi lucide, tutt’altro che rassicuranti che tenta infine di individuare possibili soluzioni alla crisi della democrazia.

Se ne parlerà mercoledì 8 novembre alle 17,30, presso l’Associazione Di Vittorio di Mesagne, alla presenza dell’autore, già presidente della Camera dei Deputati.

Incuriosisce il richiamo nel titolo del libro alla mancanza di memoria. Il pericolo che avverte l’autore è che le generazioni successive alla guerra fredda, sono cresciute nella certezza della democrazia, ma non avendo vissuto le fatiche e i rischi della sua costruzione, non ne conservano la memoria, anche perché forse non sono state raccontate loro in modo credibile. Ne vedono perciò soprattutto i limiti e considerano la democrazia e i diritti che ne sono connessi come un puro dato di fatto. Si è indebolita quindi la consapevolezza che anche i cittadini hanno una propria specifica responsabilità nella costruzione e nel consolidamento della democrazia.

L’analisi di Violante è impietosa: la democrazia nel mondo sta arretrando, oggi solo il 40% della popolazione vive in regimi sicuramente democratici, il 24% in regimi semidemocratici, il 36 % in regimi per nulla democratici. Non poche democrazie ottengono scarso consenso fra la popolazione del proprio paese, mentre alcuni leader dispotici riscuotono vasto consensi fra i concittadini, di fronte alle difficoltà cresce il mito dell’uomo forte come risolutore dei problemi.

I fattori che portarono al primato della democrazia si sono rovesciati nel loro contrario. La tranquilla consapevolezza che il connubio tra democrazia e capitalismo, dopo la caduta del Muro di Berlino, fosse l’ineluttabile destino del mondo è stata scossa negli ultimi decenni da fatti di portata epocale. Il rapporto tra regole e mercato è divenuto asimmetrico, il mercato e il capitalismo sono divenuti globali, mentre la democrazia è rimasta locale. Non esiste nessuna autorità politica in grado di imporre regole al mercato globale e di farle applicare. In quasi tutti i paesi del mondo sono aumentate le disuguaglianze, si è impoverita la classe media, la democrazia si è rivelata incapace di favorire l’uguaglianza.

La globalizzazione ha prodotto migliaia di vincitori e miliardi di sconfitti. Le classi dirigenti pro-global, tanto liberaldemocratiche quanto socialdemocratiche, hanno sottovalutato i livelli di esasperazione cui sono arrivate le classi povere. Queste a loro volta non comprendono perché nei discorsi contro le diseguaglianze sono citati le donne, i gay, gli immigrati e non invece le loro famiglie e i loro figli. Di qui l’avversione di gran parte delle classi deboli nei confronti delle politiche antidiscriminatorie e il loro consenso per la scorrettezza politica degli antisistema.

Violante passa in rassegna tutte le cause che stanno indebolendo le democrazie: i nemici interni, il populismo, la diffidenza nei confronti degli esperti e dell’élites, la crisi dei partiti, l’estremizzazione del conflitto politico, il rancore, lo sdegno, il nazionalismo etnico, l’immigrazione, la rivoluzione tecnologica.

La democrazia non è una forma di governo naturale, è una costruzione frutto dell’intelligenza umana, della ragione e della libertà, ha molti difetti, ma rimane comunque preferibile a ogni altro sistema, come affermava Churchill. La vita democratica è continua ricerca e affannoso confronto su ciò che, in base alla comune opinione, appare rispondere al bene della comunità. Nella permanente messa in discussione consiste la differenza maggiore rispetto ai sistemi autoritari, che si fondano invece su affermazioni definitive, indiscutibili, incontestabili.

Nelle fasi di crisi del funzionamento delle democrazie possono prendere piede ondate demagogiche, a volte violente, la demagogia è il male latente in tutte le democrazie, che esplode quando gli anticorpi sono più deboli. Il demagogo divide la comunità in amici e nemici, disprezza la rappresentanza politica, i partiti, il Parlamento, rigetta la mediazione che è l’essenza della politica, usa un lessico primitivo ma efficace, perché immediatamente comprensibile, si incarica di rappresentare il rancore e la sfiducia, senza risolverli, ma indicando negli avversari politici e spesso nel Parlamento i nemici responsabili di tutti i mali. E‘ opportuno non sottovalutare questa deriva, perché in seguito potrebbe essere troppo tardi per porvi rimedio.

Le democrazie in definitiva si suicidano quando perdono la loro ragione d’essere, quando le idee di libertà e di giustizia attorno alle quali si erano costituite diventano loro estranee. La democrazia proprio perché è una costruzione della ragione, non procede per automatismi, va curata con particolare attenzione perché ogni disfunzione alimenta demagogia, inganno, abusi, corruzione etc.

Se l’analisi è spietata, nelle soluzioni Violante sembra meno pessimista e più speranzoso: quella attuale può essere una crisi che rende inevitabile il declino della democrazia, ma può essere anche, sulla base dei nostri interventi, una fase di passaggio che coglie e colloca i segni del nuovo in una rinnovata visione del mondo.

E conclude a suo modo. La globalizzazione è certamente lo straordinario effetto di una rivoluzione tecnologica che investe quasi ogni aspetto dell’agire umano. Ma la globalizzazione concerne le cose, non le persone, le cose sono globalizzate, le persone no. Le persone sono e restano legate al territorio, alla città, allo Stato dove vivono, lavorano, educano i loro figli. E nello Stato, nei territori, la democrazia deve essere rianimata, per farlo è essenziale il passaggio dal leader solitario e narcisista alla costruzione di gruppi politici preparati e autorevoli. L’obiettivo è la ricostruzione di comunità politiche, attraverso legami che hanno come fondamento lo studio dei problemi, la capacità di ascolto, il rispetto, l’etica della persuasione. I partiti di oggi non sono più comunità, ma piedistalli, frutto del passaggio dai processi di rappresentazione ai processi di identificazione. Futuro dei partiti e futuro del paese nei regimi democratici sono strettamente intrecciati. L’indebolimento dei partiti come luogo di elaborazione di idee, di programmi, di piattaforme elettorali si riflette sull’indebolimento della macchina pubblica e produce un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente. Soltanto queste comunità politiche sono in grado di tenere unita la nazione, superare l’isolamento individuale, proporre un’alternativa sana al rapporto malato tra leader narcisista e popolo senza rappresentanza.

Giovanni Galeone

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