Dimmi quanti like hai e ti dirò chi sei (o chi vorresti essere) di Anna Rita Pinto
Il fatto che internet creasse dipendenza e che ci fossero specialisti deputati a curare questa patologia era cosa già nota.
Una serie di studi condotti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, già nei primi anni della diffusione dei social network, misero in luce quanto la frequentazione dei social avesse superato di gran lunga quella dei più noti siti a luci rosse che, fino a quel momento, detenevano il predominio assoluto di utenti in Rete. Basti pensare a quanti utilizzano i social per diffondere contenuti per adulti - che siano i propri scatti o materiale preso dalla Rete - e quanto questo fornisca linfa a fenomeni di esibizionismo e voyeurismo.
A parte la dipendenza da “cyber sex” esiste anche il “net gambling” che abbraccia attività online quali gioco d'azzardo, e-commerce ed il semplice shopping, ma la dipendenza più dilagante e trasversale è quella “cyber-relazionale”, ovvero il legame ossessivo con la rete che porta molte persone a manifestare difficoltà con le tradizionali relazioni sociali. È proprio ciò che abbiamo appreso dai TG e dalle testate nazionali che hanno diffuso la notizia della famiglia barese – padre e madre poco più che quarantenni e due figli minorenni - che non usciva da casa da almeno 2 anni e mezzo, tanto che al figlio quindicenne sono state riscontrate piaghe ai piedi, ricoperte da infezioni, causate dalle scarpe di due numeri in meno che il ragazzo continuava ad utilizzare.
Premesso ciò, tutto quello che potremmo aggiungere a tal proposito è mera retorica, ma sarebbe utile porsi almeno qualche domanda con onestà, non tanto per favorire una controtendenza dei dati statistici, quanto a migliorare la qualità della propria vita e di quella di chi ci sta vicino.
Quante volte durante la giornata lamentiamo di non avere abbastanza tempo per leggere un libro, per andare al cinema, in palestra, per dialogare in famiglia o semplicemente per vedere gli amici o una persona a cui teniamo o che ci piace? Quante volte diventa via preferenziale una chiacchierata in chat o un vocale su WhatsApp invece di una telefonata vera o un’uscita di persona?
Anche questo è ben noto e allora, se non basta, chiediamoci perché preferiamo ottenere un numero sempre maggiore di like sui social trascurando quelli che nel frattempo perdiamo dalle persone che abbiamo vicino, quelle reali. Basterà fare una chiacchierata con un discreto campione di avvocati civilisti per conoscere qual è la maggiore causa dei divorzi negli ultimi anni. E se proprio non è ancora chiaro quanto la vanità possa da una parte farci guadagnare consensi e dall’altra farci perdere le cose concrete, vi consigliamo la visione del film “L’avvocato del diavolo” dove Milton/Satana (Al Pacino), nella scena finale del film, ricorda a Kevin (Keanu Reeves) che la vanità è il peccato che preferisce.
La rete è uno strumento utilissimo, se usata con criterio, eppure ci ritorna contro come un boomerang andandosi a conficcare proprio là dove, evidentemente, abbiamo delle crepe affettive o relazionali. Come se la stima o un consenso di un estraneo ci abilitasse a stare al mondo più di quanto lo farebbe la stima conquistata nel tempo di chi ci conosce davvero. Proporsi per l’idea “vincente” che ci piacerebbe che gli altri avessero di noi, ci convince forse di essere esattamente quell’idea, ma che soddisfazione ci rimarrà quando conquisteremo qualcuno per qualcosa che non siamo realmente? Non sarà meglio, forse, accettarsi per ciò che si è veramente e sforzarsi di migliorare nella vita e nei rapporti reali? Solo allora saremo “vincenti” e solo allora, forse, non sarà più così importante quanti like avremo ottenuto nella vita virtuale, perché saremo più impegnati a vivere quella reale, con i suoi rifiuti, le sue risate e le sue storture. Quella vita che avremo la possibilità di vivere una volta sola.
Anna Rita Pinto