Un filosofo ateo recupera un cristianesimo in crisi
Francois Jullien è un famoso filosofo e sinologo francese. E’ uno dei pensatori francesi più tradotti all’estero[1].
L’ultimo suo testo riprende per iscritto una conferenza pronunciata alla Biblioteca Nazionale di Francia nel marzo 2016 e alla Università Cattolica di Lione nel maggio dello stesso anno. Ha per titolo: “Risorse del Cristianesimo” e per sottotitolo “ma senza passare per la via della fede”[2].
La lettura del testo non è facile. Si tratta di una relazione-testo di filosofia. Presuppone una conoscenza minima dei principali attrezzi filosofici della ricerca di Jullien. Ne consigliamo la lettura per la originalità delle tesi sostenute e perché pochi pensatori come il sinologo e filosofo François Jullien sono più fecondi nel fornirci la scatola di attrezzi concettuali per pensare la nostra epoca globalizzata e frammentata e nessuno con più originalità di lui ha potuto guardare dall’esterno al cristianesimo in crisi e problematizzarlo come “risorsa” per l’Europa d’oggi.
Jullet per anni ha navigato tra la cultura cinese e quella europea, tra la tradizione filosofica occidentale e la tradizione di matrice confuciana. Tra le due sponde naviga non con lo strumento, molto comune e diffuso, della “differenze/identità”. Con questo strumento non si va lontano, anzi, è proprio l’uso di questo strumento che spinge due culture a chiusure e violenze, sia politiche che sociali ed istituzionali. J. usa, invece, lo strumento che chiama degli “scarti e risorse”. Con esso ha costruito un cantiere sempre aperto di ricerca con sbocchi originali sul piano culturale, politico, sociale ed educativo.
Lo “scarto” (la distanza tra due culture) indica una distanza all’interno della quale si dischiude lo spazio del “tra” come inter-spazio esplorativo in cui diviene possibile far dialogare due culture, in cui diviene possibile incontrare l’alterità. Ogni termine del confronto resta in uno stato di tensione nei confronti dell’altro. Quanto più inintelligibile appare un’altra cultura dal punto di vista della nostra cultura, tanto più saranno feconde le possibilità di esplorazione che si apriranno.
Nelle sue opere Jullien ha preso in considerazione diversi concetti della cultura europea quali: la causalità, la libertà, la volontà, la conoscenza, la verità ecc.[3], sottoponendoli tutti allo sguardo della Cina e cercando al contempo di individuare i diversi modi con cui il pensiero cinese ha approcciato nella sua cornice culturale tali concetti, denotandoli e connotandoli in modo divaricante rispetto alla nostra cornice culturale. Dal confronto vengono rimesse in discussione categorie decisive per l’orizzonte teoretico, pratico e politico contemporaneo, come quella di cultura, di identità e differenza, di universalità. Il fascino di una cultura altra, la sua fecondità direbbe J., consiste proprio in ciò che vi è in essa d’impensabile per il nostro armamentario concettuale. Due culture diverse poste l’una di fronte all’altra, negli scarti che le distanziano, nello spazio vuoto (il tra) che si dischiude fra di loro ritrovano la possibilità d’interrogarsi a vicenda e di trarre da questa interrogazione un reciproco vantaggio. In questo senso si può parlare di risorse delle culture.
La distanza (“scarto”) che viene misurata, elaborata e costruita “tra” due tradizioni culturali (nel nostro caso: quella cinese e quella europea) – con confronti su diversi aspetti come la morale, le logiche del senso, l’arte e il paesaggio, la strategia, il vivere ecc… – consente, con il lavoro di J., al pensiero europeo di guadagnare un diverso accesso a sé stesso, di riscoprire il carattere inedito e non scontato delle proprie opzioni, riattivando così l’originalità delle proprie categorie e mettendo in luce la particolare piega che le ha prodotte[4].
Ma perché J., ateo dichiarato, con sorpresa del suo stesso ambiente culturale e accademico, si è interessato del pensiero cristiano?
Il cristianesimo e l’Europa
Secondo J., l’Europa fatica, oggi, a costruirsi perché ha tra le mani l’“affaire” cristiano e non sa cosa farne. Questo la imbarazza. Basta pensare alle peripezie del preambolo della Costituzione europea, tra il 2001 e il 2004. Si è voluto definire l’identità europea. Gli uni hanno detto che aveva “radici cristiane”; gli altri laiche. Tra la tradizione dell’Illuminismo e la tradizione cristiana non si è voluto scegliere. E non si è saputo dire niente, mentre invece, appunto, l’Europa è lo scarto introdotto dal cristianesimo tra la fede e la ragione. L’Europa è in crisi perché non sa gestire questo “affaire” cristiano che ha dentro, con delle chiese sempre più vuote, ma al contempo un “fatto cristiano” che tutti più o meno hanno dentro di sé.
Il testo-conferenza ha 7 capitoli[5] dai cui titoli è possibile costruire il percorso teorico delle tesi di J.
Il filosofo J. non si interessa del cristianesimo per una prospettiva apologetica, critica, di difesa o di accusa. Precisa subito che non vuol seguire nessuna delle tre vie tradizionali di interesse al pensiero cristiano: la via morale e razionale di Spinoza; la via emozionale e sentimentale di Chateaubriand; la via demistificatoria che definisce la religione cristiana un prodotto umano di Feuerbah:
“Mi guarderò dal voler ridurre il cristianesimo nel grembo della ragione, che lo riduce a un buonsenso etico più generalmente accettabile – anche se questo avesse il merito di aver tirato fuori l’Europa dai conflitti dommatici che l’hanno insanguinata. Altrettanto, all’inverso, mi guarderò dal pensare il cristianesimo contro la ragione, facendo dell’aura del mistero la sua ragione d’essere – benché essa sia servita all’affrancamento della soggettività, e prima di tutto contro la sclerosi razionale cui l’Illuminismo l’aveva portata. O ancora, infine, eviterò di limitarmi a una spiegazione del cristianesimo, trascurando allora, nell’analizzare la sua “essenza”, quel che potrebbe promuovere nell’esistenza”[6].
L’intento di J. è quello di affrontare la questione di ciò che è diventato il cristianesimo in Europa non domandandosi, come aveva fatto Nietzsche, cosa il cristianesimo abbia pervertito e, nel contempo, raffinato nell’”uomo”, cosa ha fatto perdere dell’eroismo e della felicità greca con la sua cultura del risentimento contro la vita. Nietzsche ne aveva trattato in termini di “valori” predicendo contro il cristianesimo il rovesciamento di questi valori perché i valori sono esclusivi. J. non si vuol fermare a questa esclusione, solo a questi aspetti negativi. Perciò affronta la questione non in termini di “valori” ma di “risorse”.
Il significato di “risorsa”
E qui ritorna lo strumento di lettura “scarto/risorse”, centrale nel pensiero del filosofo e utilizzata per navigare tra le sponde di culture diverse e lontane, quali sono fede e ragione nell’Europa d’oggi.
Ma che significa “risorsa” per J.?
Risorsa non significa valore, perché i valori rivaleggiano tra loro, si sfidano e si fanno concorrenza. Per i valori siamo portati a divenire intolleranti. E molti valori cristiani nel mondo contemporaneo sono contestabili e contestati. Le risorse invece non sono in concorrenza, si integrano le une con le altre e si arricchiscono delle loro differenze.
Risorsa non significa ricchezza. Uno sulle proprie ricchezze si addormenta o al più si preoccupa della trasmissione. Le ricchezze sono delimitate. Invece delle risorse che esploriamo non conosciamo il limite.
Risorsa non equivale a radice ma la risorsa va pensata all’opposto. La radice, rivolgendo lo sguardo indietro, seppellisce; una risorsa, invece, è produttiva perché prospettica.
Secondo J., però, non si entra nel cristianesimo come risorsa se la porta d’ingresso è la “verità” come condizione preliminare. Entrare da questa porta produce una spaccatura tra credenti/miscredenti. Né se la porta d’ingresso è la fede. Entrare da questa porta produce necessariamente una rottura:
“Isolandosi e ponendosi come prima, (la fede) rischia sempre di essere sottoposta, soggettivamente, a un fenomeno di autosuggestione (credo perché voglio credere); oltre che, oggettivamente, a una sedimentazione e a una pietrificazione (che sfociano in dogma). Di più, è nel voler convincere della propria verità che il cristianesimo mi pare più maldestro o, diciamo, più sprovvisto di risorse. E’ sufficiente riprendere gli argomenti di Paolo, purtuttavia grande predicatore, per constatarne l’inanità. Il vecchio argomento stoico, inossidabile e contemporaneamente inutilizzabile: Dio si vede nelle sue opere che sono la bellezza del mondo. O il baratto (più tardi la scommessa): accettiamo il ‘leggero peso della nostra tribolazione’ in cambio di una eternità di gloria. O l’intimidazione (l’inferno) e la messa sotto accusa (se non credi, sei malvagio). Oppure ancora l’alternativa forzata che si rinchiude in una morsa: se non crediamo alla resurrezione, non abbiamo da fare altro che ‘magiare e bere’, senza limiti, ‘perché domani moriremo’. Eppure il cristianesimo custodisce ben altre risorse rispetto alla miseria di tutte queste proposte”[7].
Il concetto di scarto fecondo applicato al cristianesimo
A monte del concetto di risorsa ritornano nel testo di J. i concetti di “scarto” e “tra”.
Lo scarto obbliga ad uscire dal previsto, dal convenuto. I Greci non parlano di scarto, ma di differenza. La differenza “mette ordine”, separa distinguendo. Lo scarto fa l’inverso: pone l’interrogativo per sapere fino dove arriva la distanza. Lo scarto disturba, non mette ordine. Ha una vocazione esplorativa. Fa scoprire. La scarto non abbandona l’altro, lo mantiene di fronte a sé. Lo scarto non è un “gap”, un fossato. Al contrario, lo scarto permette di far apparire qualcosa “tra”, di far apparire l’alterità, nella quale è possibile qualcosa di comune. In una coppia, ad esempio, bisogna saper ricreare dell’alterità per rinnovare l’incontro.
Applicato al cristianesimo il concetto di scarto mostra una singolaritàlinguistica e una strutturale:
La sua prima grande singolarità, secondo J., è che la testimonianza di Cristo è espressa, nei vangeli, in lingua greca e non in ebraico, e neanche nell’aramaico, lingua che parlava Gesù. Il che dà al cristianesimo, fin dall’inizio, una vocazione universale.
Lo scarto strutturale è, invece, nella stessa narrazione cristiana: ci sono non uno ma quattro Vangeli a confronto e giustapposti. Non c’è un’unica narrazione ma quattro percorsi paralleli, per dare credito all’inaudito del pensiero cristiano:
“Cristo è totalmente uomo e totalmente Dio. È una contraddizione flagrante. Io che ho passato il mio tempo tra i Greci e i Cinesi, trovo che sia questa contraddizione la cosa più straordinaria dell’intelligenza cristiana. Nel suo vangelo, Giovanni permette di far sentire la novità, l’inaudito. Dio parte dal Dio eterno per morire da schiavo sulla croce. Dio crea così uno scarto dentro sé stesso. Non si immobilizza in un’essenza di Dio, che sarebbe un Dio morto. È proprio la singolarità del cristianesimo questa parte di uomo all’interno di Dio. Nei vangeli, Dio si disfa di sé stesso per promuoversi”[8].
Il Vangelo di Giovanni
Ma dei quattro evangelisti J. abbandona i primi tre e segue solo il Vangelo di Giovanni. Perché?
Giovanni, secondo J., presenta una forma di radicalità che non si trova nei tre vangeli sinottici. Giovanni non cerca di convertire, a differenza di Paolo; non è ideologo. Si interessa di ciò che avviene, cosa che permette l’evento, il suo sorgere. È in Giovanni che lo scarto realizzato dal cristianesimo nei confronti di tutti gli altri modi di pensare è espresso con maggiore radicalità.
“La prima cosa che interessa a Giovanni è capire se esiste un “avvenire” che apre un futuro non già contenuto dentro ciò che l’ha preceduto, che non è già contenuto e incatenato. A lui interessa capire se qualcosa di inedito è possibile. La prima risorsa, in Giovanni, è dunque di portare a pensare che un evento possa avvenire. I Greci, a partire dallo sviluppo della metafisica, non hanno potuto accordare alcuno statuto affidabile all’evento: da una parte, perché il divenire, in carenza di identità (di “essere”), non è che una corruzione nel suo metabolismo; dall’altra, perché sono legati alla spiegazione, vale a dire alla connessione causale, e nella logica della causazione non esiste evento, in senso proprio, bensì solamente effetti che precedono da cause”[9].
“Per stabilire che una tale categoria non è illusoria o fallace, Giovanni ha designato Cristo (“Logos”) nel suo prologo, come chi (Colui) “attraverso” il quale tale avvenire reale è reso possibile”[10]. ”In principio era il Verbo”, “il logos era presso Dio”: “Era “ e “divenne” si succedono (dall’imperfetto all’aoristo).
Giovanni, spingendo all’estremo il pensiero del divenire-evento, ci dice due cose: l’evento cambia tutto e può farci entrare in una vita totalmente altra fino al punto che, per mezzo di esso, l’impossibile diventa possibile; l’evento non è spettacolare ma “inaudito”, vale a dire non lo udiamo perché non lo sappiamo udire. Ma di questo evento in cui siamo immersi, anche se non udito o percepito, Giovanni ci dice la natura: esso è la “vita” (zoé): “L’avvenuto in Lui era la vita”. Il Cristo non è soltanto, in Giovanni, colui attraverso il quale si articola l’Essere e il divenire, ma è parimenti colui per mezzo del quale questo avvenire si promuove e si fa vita: attraverso di lui si può vedere come la vita possa essere viva.
Giovanni nella narrazione della “faccenda imbarazzante che riguarda colui che è stato chiamato “Cristo” radicalizza, e questo in funzione di una sola domanda: che cosa vuol dire essere veramente vivo?”[11].
Che vuol dire essere vivi?
I greci avevano già distinto due significati di “vita” a cui avevano dato due nomi differenti: la vita buona (bios) cioè la vita etica e politica e la vita in quanto è semplicemente si è in vita (zoé). Giovanni non prende in considerazione la vita qualificata bios ma distingue la vita in quanto essere in vita o avere in sé il soffio vitale che chiama psyché dall’avere in sé la vita nella sua pienezza che chiama zoé.
La vita-zoè è la parola essenziale della riflessione di Giovanni. Costituisce il valore assoluto: non vi è nulla al di là della vita. Lo sforzo di Giovanni è quello di divaricare quanto più è possibile la vita-zoé dalla vita-psyché.
E come si sviluppa la vita-zoé? Giovanni ne parla bene con l’episodio della Samaritana, che dà a Cristo da bere[12]. La Samaritana parte dal significato materiale della vita, la vita vitale data dall’acqua che disseta. Poi arriva alla vita come sorgente di vita, “effettivamente vivente”, che J. chiama “vita sovrabbondante” e non “in abbondanza” (traduzione comune), in quanto dice il superamento della misura, il traboccare e l’eccedere. Gesù non apre un’altra via, ma insegna a intendere in maniera altra, spiritualmente, la vita.
Ma attenzione, scrive J.: la spiritualità, oggi, è una grande pattumiera dove si mette qualsiasi cosa.
Spiritualizzare non è simbolizzare, come se l’acqua del pozzo fosse simbolica di un’altra acqua. Non significa nemmeno concettualizzare, cioè passare dal concreto plurale delle cose della vita all’idea platonica di vita. Spiritualizzare, per Giovanni, è sapere come non rimanere imbrigliati nel vitale per poter dispiegare la vita nella sua espansione, zampillante e sovrabbondante. Ma lo spirituale odierno, per il fatto della crisi del religioso, è stupidamente caduto sotto il giogo di ciò che viene chiamata “crescita personale” dove si mischiano consigli di salute ad altri di spiritualità a buon mercato e si fa commercio di ciò che non è più né l’una né l’altra.
La vita-zoè, quindi non è una vita intensa o dispiegata con vitalità ma è la vita espansa, “perché si dà e si condivide, non si tiene in serbo per sé ma si dedica all’Altro: quel che a partire da lì diviene, in Giovanni, la figura del Gesù vivo che muore sulla Croce per la vita degli altri”[13].
Che farne della “vita eterna”? Che farne della resurrezione dei morti? Che farne del Giudizio Universale? Di questi dogmi, “per quel che attiene al pensiero della risorsa, esso se ne può distaccare e persino rinunciarvi”[14].
La logica singolare apportatrice di zoé: la de-coincidenza
“Chi ama la sua vita (psyché) la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita (zoé) che non muore”[15].
I due verbi opposti “amare e odiare”, spogliati da significati psicologici o ascetici, all’interno della scissione aperta tra i termini psyché e zoéindicano come è possibile promuovere la vita sovrabbondante: “amare la propria vita” vuol dire essere attaccati al proprio essere in vita, alla psyché, restare incollati a questo vitale, aderirvi e impantanarsi. “Odiare la propria vita in questo mondo”, dice al contrario, che ci si deve scollare da un tale attaccamento all’essere in vita, così limitato e condizionato com’è e, issarsi fuori dall’adattamento al proprio mondo, vale a dire “de-coincidere dalla propria vita, strapparsi a forza (“odiare”) dalla connivenza e dalla coerenza con essa per accedere a ciò che è vivo della vita”[16].
Giovanni fonda la de-coincidenza, dal principio, in Dio stesso e la afferma in Cristo quando scrive che Cristo dice ai suoi discepoli: “Mi ritiro e vengo verso di voi”[17]. Nel testo greco, le due parti sono simultanee. Si dovrebbe tradurre così: “Con il mio ritirarmi, vengo verso di voi”. È come l’amore: bisogna separarsi per tornare. Per accedere all’intimo dell’altro. L’incontro dell’altro si fa fuori dal mondo. Un altrove da dove viene l’altro. Gesù apre in questo mondo una dimensione altra o, per meglio dire, una dimensione dell’Altro.
La de-coincidenza è propria del cristianesimo anche quando opera un distacco dall’ebraismo senza perciò separarsene.
Per J. però è strano che questa logica del de-coincidere affermata da Giovanni, nella storia del cristianesimo poi, si sia iscritta in un corpus dommatico. “E’ strano che quell’annuncio dell’inaudito, in opposizione all’ovvio e allo stabilito, non soltanto sia diventato un pensiero sedimentato e sclerotizzato, ma che sia anche servito a cementare l’apparato oppressivo del potere, come ha fatto la chiesa nella sua storia”[18].
L’etica della zoé: ex-sistenza cioè tirarsi fuori dal mondo, abitare l’Altro
Secondo J. c’è una dimensione etica essenziale al cristianesimo ed è sintetizzabile in una parola: “esistere”. “Ex-sistere” è, etimologicamente, “tenersi fuori”.
L’uomo è il solo essere vivente a potersi tener fuori dal suo ambiente. Il soggetto umano è al contempo nel mondo e fuori dal mondo. Basta leggere bene l’episodio della donna adultera: la famosa frase “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei”[19] evita il giudizio in cui si rinchiude il mondo. Fa un buco nel sistema.
Ma questo “tirarsi fuori dal mondo” non significa, come molti oggi interpretano,”vivere fuori dal mondo”.
Giovanni dice: “Il mio regno non è di questo mondo”, e questo lo si può effettivamente leggere come il rifiuto del mondo. Ma per J. una simile lettura è errata, perché l’evangelista fa sentire qualcos’altro. Non c’è rifiuto del mondo, perché Dio ama il mondo. Ma essere del mondo significa una totalità di appartenenza. È quindi una forma di chiusura. Esistere, in senso cristiano, invita, pur essendo nel mondo, a tenersi fuori dal mondo. È non solo una formidabile apertura, è la sola possibilità di vero incontro.
Al termine della lettura del libro di J. si capisce perché il tema affrontato è un tema non solo filosofico ma anche politico di grande attualità rispetto a un’Europa che tanto fatica, oggi, a costruirsi e che, anzi, si sfalda e diventa sempre più marginale nella politica mondiale. Secondo J. l’Europa non riesce più a gestire l’affaire cristiano e non sa cosa farne di un reperto storico che la ideologia religiosa e istituzionale ha reso sterile e insignificante. Ma il “fatto cristiano” narratoci da Giovanni, coperto da molta cenere, è più o meno in tutti, dentro di noi.
L’Europa non ha più ideali che la spingano, è diventata una trattativa tra piccoli commercianti. Ha perso la dimensione dell’alterità e da qui deriva la sua crisi e il ripiegamento nazionalistico, con tutti i suoi frutti velenosi.
Il “fatto cristiano evangelico” con le sue risorse, invece, è la possibilità di uscire da sé, di non ripiegarsi su questa chiusura di sé. L’Europa non ha più l’ideale di pensare l’altro e le culture altre come colui/coloro che permettono di uscire dal pantano in cui si è cacciata. Ma proprio quest’ideale può essere la vera sfida politica, la parola che descrive una nuova geografia e una nuova storia dell’Europa.
Tesi affascinante, supportata da aggiornatissima esegesi biblica, forse un po’ accademica.
Ma il testo di J. è libro luminoso che restituisce, a due millenni di distanza, la forza originaria, smarrita dalla istituzione religiosa, del Vangelo, il solo che può dar nuova luce al cittadino europeo, sia che si dichiari credente e sia che non lo sia, come Julliet.
aprile. 2019
NOTE
[1] E’ tradotto in circa venticinque paesi: più di venti opere sono state tradotte in tedesco, italiano e spagnolo; una dozzina in inglese, cinese, vietnamita e portoghese. Una presentazione complessiva del suo lavoro si trova nell’opera “De l’Être au vivre, lexique euro-chinois de la pensée“, Gallimard, 2015.
[2] Tradotto da M. Garzillo e da V. Ostuni, è stato pubblicato da Ponte alle Grazie, 2019, pp. 117, € 14,00.
[3] F. Jullien, Una seconda vita. Come cominciare a esistere...trad. it. di M. Guareschi, Milano, Feltrinelli 2017.
[4] Per più ampi riferimenti al pensiero di J. si rinvia, in particolare, ai seguenti testi dell’autore: – Nutrire la vita. Senza Aspirare alla felicità, tr. it. di M. Porro, Milano, Cortina 2006. – L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, tr. it. di B. Piccioli Fioroni, A. De Michele, Roma-Bari, Laterza 2010. – Contro la comparazione. Lo «scarto» e il «tra». Un altro accesso all’alterità, tr. it. di M. Ghilardi, Milano-Udine, Mimesis 2014. – Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore, tr. it. di R. Prezzo, Milano, Raffaello Cortina 2014. – Essere o vivere, Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, trad. it di E. Magno, Feltrinelli, 2016. – Una seconda vita. Come cominciare a esistere…trad. it. di M. Guareschi, Milano, Feltrinelli 2017.
[5] Titoli dell’indice: 1. Rifiutarsi di evitare (la questione del cristianesimo); 2. Risorse; 3. Un evento è possibile; 4. Che vuol dire essere vivi?; 5. Logica della de-coincidenza; 6. Riconfigurazione della verità; 7. Ex-sistenza: tenersi fuori dal mondo, abitare l’Altro.
[6] F. Jullien, Risorse del cristianesimo, op. cit., pag. 22.
[7] F. Jullien, Risorse del Cristianesimo, op. cit., pag. 32.
[8] Intervista a François Jullien, a cura di Isabelle de Gaulmyn e Antoine Peillon in “La Croix” dell’11 giugno 2018.
[9] Op. cit., pp.46-47.
[10] Op. cit., pag. 45.
[11] Op. cit. , pag. 50.
[12] Gv 4,5-42.
[13] Op. cit. pag. 65.
[14] Op. cit. pag. 66.
[15] Gv. 12, 25.
[16] Op. cit., pag. 68.
[17] Gv. 14, 28 (nella traduzione della Cei: “Vado e tornerò da voi”.
[18] Op. cit., pagg. 79-80.
[19] Gv 8,7.