La fabbrica di Bardaro (di Carmelo Colelli)

Questo ricordo la pubblicammo nel 2014. Viene riproposto per i vecchi ma soprattutto per i nuovi lettori della nostra testata.

 

La fabbrica di Bardaro.

Sabato scorso, percorrevo la Brindisi-Mesagne, in macchina. Con me c’erano i miei due figli. Dopo aver superato la vecchia casa cantoniera, ancora rossa con i profili bianchi, ecco alla mia destra un edificio malconcio, ridotto male dalle intemperie del tempo e dall’abbandono.

Mia figlia mi chiese cosa fosse quella struttura, non me l’aspettavo, ma la domanda mi giunse gradita: mi diede la possibilità di raccontare una mia esperienza di molti anni fa.

In quel capannone, negli anni ’60, vi era la fabbrica di Franco Bardaro, per la produzione di bevande, aranciate, limonate e gingerino: le Aranfrutto, le Lemonfrutto e il Ginger 007, un vero gioiello, in quegli anni.

Ricordi affiorano alla mente: avevo messo piede in quella fabbrica, nel lontano mese di Luglio del 1969 e ne ero rimasto affascinato dalla linea di produzione, di acciaio scintillante, movimentata meccanicamente, dalle luci che si accendevano e si spegnevano sul pannello di controllo linea, dall’ordine, dalla pulizia, dal laboratorio chimico per l’analisi dei prodotti, l’acqua e i componenti per la produzione delle bibite.

Come ogni anno, dopo aver terminato la scuola, andavo a Mesagne; quell’anno l’amico con cui trascorrevo il tempo libero mi disse che voleva cercare un lavoro, aveva bisogno di soldi, voleva comprarsi la moto, una moto usata, un vecchio “Itom 50 sport”, rosso corsa, che aveva già visto, gli piaceva ma non aveva tutti soldi necessari per acquistarla.

Il lavoro lo cercammo insieme, volevamo fare gli aiutanti muratori o piastrellisti, chiedemmo a vari maestri, nessuno aveva bisogno del nostro aiuto.

Fu proprio durante questa ricerca, che una signora, sentendo la nostra richiesta, ed avendo ascoltato la risposta negativa di un maestro muratore disse:

“Vagnù aggiu ‘ntisu ca alla ghiacciaia, sta cercunu giuvini, pi la fabbraca nova, quedda ca stai sobbra alla strata ti Brindisi”,

“Ragazzi ho sentito che alla ghiacciaia, stanno cercando giovani, per la fabbrica nuova, quella che si trova sulla strada per Brindisi”.

Contenti io ed il mio amico, andammo velocemente alla ghiacciaia, quella di fronte alla scuola elementare in via Marconi, dove un tempo si producevano blocchi di ghiaccio.

Ci ricevette una gentile signora bionda, la signora Violetta Leone, ci spiegò il tipo di lavoro da svolgere, gli orari, la cura da mettere nelle varie operazioni, infine la cosa che ci interessava di più: la paga settimanale.

Io ed il mio amico ci guardammo soddisfatti, era più di quello che ci aspettavamo, il lavoro ci sembrò meno duro del dover trasportare “baioli ti conza, piastrelle, tufi e tirsalori”, “caldarelle di malta, piastrelle, blocchi di tufo o fette di questi, comunque pesanti”.

La mattina successiva, puntuali, anzi in anticipo, ci ritrovammo vicino alla ghiacciaia, erano le 5.30, vedemmo arrivare, donne di varie età, ragazze e ragazzi come noi.

Arrivò anche un pulmino, un vecchio leoncino OM color crema, uno dopo l’altro salimmo, ancora non erano le 6 quando il mezzo partì col suo carico di lavoranti ancora assonnati, dopo poco la prima fermata, “Porta Grande”, un altro gruppo di donne e ragazze, salì e si ripartì, per un’altra fermata, “Allu zzicchinu”, poi il pulmino iniziò la sua corsa verso la fabbrica sulla strada per Brindisi.

Alle 6.00 tutti a posti di lavoro!

All’interno vi era la linea di imbottigliamento, per le bottiglie da litro e per quelle piccole.

Il percorso delle linea iniziava dalla sezione lavaggio, le bottiglie venivano lavate e sterilizzate, venivano sistemate, dalle lavoranti, sulla catena ed in fila indiana, si avviavano alla sezione riempimento, altro passo avanti, sezione tappi, un braccio meccanico sistemava i tappi corona, ancora avanti e le belle bottiglie bianche o quelle verde chiaro, venivano corredate, sempre automaticamente, dell’etichetta.

La corsa finiva in una zona circolare del diametro di un paio di metri, qui le bottiglie si addossavano le une alla altre ed era necessario rimuoverle velocemente e sistemarle nelle cassette.

Nelle varie sezioni della linea di produzione, vi erano le donne, tutte col grembiule celeste e la cuffietta sulla testa che le controllavano e le sistemavano. Alla sezione fine corsa, bisognava essere ancora più veloci, le bottiglie andavano rimosse per dare spazio alle altre in arrivo, non bisognava far intasare la zona, non si poteva far fermare la catena.

Le ragazze le prendevano e le sistemavano nelle cassette, in ognuna di queste 16 bottiglie, in quegli anni le cassette erano di legno ed erano pesanti, specialmente quelle da litro.

Sistemate le cassette noi ragazzi dovevamo essere veloci, a rimuoverle e portarle nella zona stoccaggio, per il successivo carico sugli automezzi adibiti al trasporto.

Le ore passavano, veloci come le bottiglie, i lavoranti compivano le varie operazioni, con precisione e meticolosità, ma non erano dei robot, avevano un cuore.

Due sole settimane, in quella fabbrica mi sono bastate per portare via tanti ricordi, tornati oggi alla luce:

le madri che parlavano tra loro, sottovoce, dei loro figli, della loro famiglia, dei vicini di casa, a qualcuna, talvolta, veniva giù anche una lacrima pensando al figlio o al marito lontano, le ragazze chiacchieravano tra loro, era inevitabile non sentire i loro discorsi eravamo li, tutti vicini:

“Lu vagnoni mia, mo ava partiri ssurdatu, è avutu già la cartullina, ava ssa fari lu marinaru”

“Il mio ragazzo, ora deve partire per il militare, ha già avuto la cartolina precetto, deve andare a fare il marinaio”

Proprio sull’ultima “u” partiva il pianto, prontamente smorzato dalle risa delle compagne, si tornava a sorridere.

Per me in poche ore, una successione di piacevoli interrogatori:

“Ma tuni sinti ti Misciagni o sinti ti Bari?”,

“Ma tu sei di Mesagne o sei di Bari?”,

sono di Mesagne ma da cinque anni vivo a Bari

“A Bari studi?”

Si sono studente, frequento la scuola per geometri.

“Ma mammata non eti la soru ti la nunna Vita?”,

“Ma tua madre non è la sorella della signora Vita?”,

Si la signora Vita è mia zia, la sorella di mia madre.

Ogni tanto il tono della voce si faceva più basso o cessava, avevano visto arrivare qualcuno dei proprietari o dei responsabili del reparto.

Non ricordo quante cassette di bottiglie e bottigliette spostai per tutto il giorno, a sera nel pulmino ero stanchissimo, le braccia cascavano da sole.

La notte, il riposo ed il sonno, rimisero a posto tutto, la mattina dopo, alle 5.30 ero pronto a ricominciare.

Passarono veloci come le bottiglie, le due settimane, “La festa ti Luglio era rrivata”, “La festa Patronale della Madonna del Carmine, del 16 Luglio era arrivata”.

Una vecchia canzone di quegli anni diceva: “Tre settimane da raccontare agli amici tornando dal mare…”

Dopo 50 anni, le mie due settimane, belle e ricche di tanti ricordi, le ho volute raccontare a Voi, con molto piacere.

Carmelo Colelli

Per offrirti il miglior servizio possibile questo sito utilizza cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego in conformità della nostra Cookie Policy.