La Befana, un ricordo del 1959 (di Carmelo Colelli).
“Mi raccumandu cumportati bbuenu ci noni la Bbifana non ci veni!”
Mi raccomando, comportati bene, altrimenti la Befana non viene!
Questa era la raccomandazione che le nostre mamme, le nostre nonne, le nostre zie ci facevano nei giorni tra Natale e la Befana, aggiungendo:
“Ppindi lu quazetto sotta a llu fucaliri e va corchiti, non vuardari ‘ncielu ci noni quedda ti veti e non ci veni.”
Appendi una calza sotto al caminetto e vai a dormire, non guardare in cielo, altrimenti, lei ti vede e non viene.
Noi ragazzini di cinque, sei, sette anni facevamo esattamente come ci avevano consigliato, a volte, però, senza farcene accorgere scrutavamo il cielo per vedere se passava la Befana, eravamo curiosi, volevamo vederla.
In quegli anni, nei nostri paesi del sud, nella mia Mesagne, non era ancora arrivato Babbo Natale, esisteva solo lei: la Befana.
Solo in alcune case vi era la radio o il televisore, nelle altre il punto d’incontro della famiglia “allargata”, la mamma, la nonna, le zie, alcune vicine di casa con i loro figli, era vicino al caminetto o intorno al braciere, qui si raccontavano le storie, qui si tramandava il sapere popolare.
Gli uomini di casa erano fuori, o in piazza a cercare lavoro come braccianti o, addirittura, all’estero, questi ultimi erano partiti qualche giorno prima della Befana.
Si andava a dormire molto presto, verso le otto massimo le nove, si faceva più tardi, aspettando la mezzanotte: solo la sera della vigilia di Natale. Il giorno nelle nostre case iniziava molto presto, all’alba bisognava essere pronti per andare in campagna e anche la sera della vigilia della Befana si doveva andare a dormire presto.
“Toppu ca erumu ppindutu lu quazettu, chiù luengo, sotta a llu fucaliri, ‘ndi sa curcaumu, ma quedda sera no rriusciumu propria a pigghiari suennu”
Dopo aver appeso la calza, quella più lunga sotto al caminetto, andavamo a letto, ma quella sera era difficile prendere sonno.
Prima di addormentarci spaziavamo con i nostri desideri, immaginavamo i giocattoli che avevamo visti esposti in un grande negozio del corso principale di Brindisi, automobiline di tutte le dimensioni, aerei, palloni, pattini, trenini, costruzioni di vario genere, immaginavamo di poterci giocare e così immaginando ci addormentavamo.
Al mattino appena svegli si correva a vedere cosa aveva portato la Befana, il fuoco era già acceso, la calza era piena e pendeva dal caminetto, alla base del caminetto un pacco, la gioia era tanta, prendevamo “lu vanchitieddu” lo sgabello, quello che solitamente era vicino al caminetto, salivamo su e prendevamo la calza, attorno a noi la famiglia “allargata”, mancavano solo le vicine di casa.
Avevamo la calza tra le mani, ancora chiusa, e i nostri occhi luccicavano di felicità.
Avevamo fretta di aprire la calza ed era in quel momento che la nonna diceva:
“Ppoggiti sobbra alla bbanca cu no faci catiri ‘nterra li cosi ca la Bbifana te lassati”
Poggiati sul tavolo così eviti di far cadere a terra le cose che la Befana ti ha lasciato.
Noi facevamo come nonna aveva consigliato e iniziavamo a tirar fuori dalla calza il contenuto, due mandarini, tre noci, un arancio, dei dolci natalizi fatti in casa, una stecca di cioccolato, solitamente avvolta in carta verdina trasparente a quadrotti, infine anche un pezzo di carbone, quello vero, preso dal caminetto il giorno prima, in quei tempi non esisteva ancora il carbone dolce.
I giocattoli che avevamo sognato, dovevano essere certamente nel pacco, lo prendevamo e cominciavamo a rompere la carta, ricordo che la carta che lo avvolgeva non era bella come quelle che si trovano oggi, ne avevano messa tanta di carta, man mano che la toglievamo la gettavamo nel caminetto, questa faceva una bella fiammata e prontamente la nonna, con tono di voce severo, diceva:
“No iaticati la carta ‘ntra lu fueco cu no ssi ppiccia la ciminea.”
Non gettate la carta nel fuoco, la fiamma potrebbe incendiare la canna fumaria del caminetto.
Noi, mentre lei si distraeva lo facevamo lo stesso, ci piaceva vedere le lingue di fuoco.
La carta era stata tolta tutta, il regalo era lì: una pistola con la fondina, il cinturone e la scatoletta dei colpi.
Non era presente nella nostra immaginazione dei giorni prima e della sera prima, proprio non c’era.
I nostri occhi erano ancora lucidi di gioia, avevamo avuto la Befana.
Subito il cinturone era indossato, la pistola già tra le mani, come avevamo visto al cinema, eravamo pronti per giocare a guardie e ladri.
Un tocco alla porta a vetri che dava sulla strada, era Antonio, uno degli amici, anche lui con cinturone, pistola ed un cappello.
“Uè ma sta va sciocu dda fori cu ‘Ntogno e l’atri cumpagni mia.”
Mamma sto andando a giocare per strada con Antonio e con gli altri amici miei.
Alcune strade, in quegli anni, in special modo quelle della nuova periferia del paese, non erano ancora asfaltate, da lì non passavamo auto, solo qualche volta passava un motorino o una bicicletta, si poteva giocare per strada.
In zona vi erano alcune case in costruzione, essendo giorno di festa gli operai non lavoravano e questi edifici e le aree circostanti diventano le roccaforti da espugnare o da difendere, eravamo in tanti, tutti armati con fucili e pistole, alcuni con i giubbottini da sheriffo, le pistole ed i fucili sparavano in continuazione, il rumore dei colpi si sentiva a distanza.
Il tempo scorreva, eravamo gli stessi del giorno prima, avevamo dimenticato i sogni stavamo giocando, ci stavamo divertendo all’aria aperta, era una bella giornata di sole.
Sul più bello ecco una voce di mamma:
“Ieni! Sirda è rrivatu e a ma mangiari”
Vieni! Tuo padre è arrivato e dobbiamo pranzare.
Tornavamo a casa uno dopo l’altro, con le scarpe sporche e i pantaloni rotti sulle ginocchia, eravamo stanchi ma felici di aver giocato insieme.
Era la Befana del 1959.
Carmelo Colelli