Le estati che furono (di Marcello Ignone)
Alcuni giochi fanciulleschi praticati un tempo a Mesagne.
L’estate è sempre stata la stagione preferita dai ragazzi, il tempo per antonomasia del gioco, soprattutto di gruppo e all’aperto. Ma i giochi fanciulleschi di un tempo ormai passato sono molto lontani dai giochi attuali e addirittura dallo stesso concetto di gioco oggi diffuso.
I ragazzi di oggi, nativi digitali, sanno poco o nulla dei giochi di un tempo. Oggi i ragazzi hanno tante opportunità e strumenti tecnologici che quelli della mia generazione potevano solo sognare, solo che i ragazzi di ieri (tutti quelli cresciuti a Mesagne tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) conoscevano (e non c’era Facebook) tutti gli altri ragazzi del loro quartiere o dei quartieri amici ed evitavano (ma conoscevano…) i ragazzi dei quartieri nemici.
In pratica, la storia raccontata da Ferenc Molnár ne I ragazzi della via Pál avrebbe potuto essere ambientata in ognuno dei quartieri di Mesagne, per fortuna senza l’epilogo tragico della morte di Ernesto Nemecsek, anche se incidenti capitavano a causa delle “guerre” tra bande di ragazzi appartenenti a quartieri “nemici”. I quartieri che avevano le bande più pericolose? Li Grutti e la Cintrali…
Il patrimonio ludico tradizionale mesagnese è stato notevole: giochi all’aperto, primaverili ed estivi, e al chiuso, d’inverno o durante le giornate di pioggia; giochi individuali, come passatempi e burle, e di gruppo o collettivi, a squadre; ed ancora, giochi con strumenti, monete, carte, figurine, palle, corde…, e giochi di forza, resistenza, equilibrio, velocità e destrezza, comunque senza l’ausilio di materiali o strumenti.
I ragazzi di ieri costruivano da se stessi i giocattoli con i materiali che riuscivano a reperire in qualche laboratorio artigianale, a casa o per strada. Adoperando semplici strumenti di utilizzo comune, riuscivano a raggiungere abilità tecnico manuali davvero complesse dal momento che costruire un monopattino, un aquilone, un fucile a molla, un arco con relative frecce e il tutto da un vecchio ombrello, una fionda e tanto altro ancora, non era cosa di poco conto, visto che facevano ricorso alle umili cose della quotidianità: bottoni, tappi di rame, monetine, noci, ghiande, pietruzze…
Sul piano temporale va detto che quei giochi duravano fintanto che le energie profuse dai ragazzi non si erano del tutto esaurite, visto che il gioco era un’attività che si autoalimentava. I più anziani ricorderanno, infatti, le lunghe gare a lli quattru cantuni (a lli quattru pizzuli) che, iniziate in piena luce solare, andavano avanti fino a sera tardi, sfruttando sia la luce artificiale dei lampioni messi proprio al centro degli incroci che la pazienza dei genitori!
La libertà di cui godevano i ragazzi allora era enorme! Gli adulti impegnati nel lavoro o nelle faccende domestiche e i ragazzi a giocare per strada. Solo che i ragazzi non eravano mai lasciati a loro stessi perché tutta la comunità vigilava, anche quando l’ambiente era sicuro e tranquillo, come quello di un tempo.
Il paese intero, le sue strade e stradine, le cento piazze e piazzette, gli ampi spazi periferici, gli orti, i marciapiedi erano a disposizione dei ragazzi.
Di seguito si riportano due giochi, uno prevalentemente maschile e l’altro femminile.
Nome: A zzeppuri
Numero giocatori: due o più giocatori singoli o squadre formate ognuna da 2-3 giocatori
Genere: maschile
Luogo: all’aperto, in strada o in spazi ampi e possibilmente disabitati
Materiali: attrezzi in legno precedentemente lavorati (un bastone, la mazza, di circa 40 cm per ogni giocatore) e un piccolo fuso in legno, lu zippu, di circa 10 cm con le estremità appuntite
Descrizione:
Il gioco era semplice: ogni giocatore, a turno, utilizzando la mazza doveva colpire lu zippu ad una delle due estremità appuntite, facendolo saltare in aria per poterlo poi colpire una seconda volta al volo e mandarlo il più lontano possibile. Si praticava tra due giocatori o, meglio, a squadre di due o anche tre ragazzi. Per giocare c’era bisogno di due semplici attrezzi di legno: un bastone di circa 40 cm e non più grosso di un manico di scopa, da cui spesso si ricavava, e un pezzo di legno appuntito alle estremità e non più lungo di 10 cm e detto in dialetto zippu (il plurale, zeppuri, dava nome al gioco ed indicava entrambi i legni usati). Questo zippu, gettato per terra, doveva essere colpito con il bastone (in dialetto si chiamava mazza) dopo aver fatto leva su di una delle due estremità dello zippu e averne provocato un piccolo balzo, sufficiente per colpirlo, a mezz’aria, con la mazza. Normalmente si partiva con lo zippu posto su di un ciglio di marciapiede che diveniva il punto di partenza e la meta per la prima misurazione. La seconda battuta era praticata nel punto di caduta dello zippu cercando di scagliarlo molto lontano dalla meta, mentre la distanza di caduta dello zippu era dichiarata in modo presumibile dallo stesso battitore. La distanza tra lo zippu e la meta si misurava con la mazza usata come unità di misura, per cui il battitore dichiarava, cercando di indovinare, il numero complessivo presumibile di mazze occorrenti per raggiungere lu zippu. Se la distanza effettivamente misurata risultava uguale o inferiore a quella dichiarata, il battitore vinceva ed era portato a spalla dal successivo ragazzo sino alla meta; se invece era maggiore di quanto dichiarato, il battitore perdeva la mazza, che passava al successivo compagno e così di seguito.
Nome: A štacchia (Ammé-salam)
Numero giocatori: due o più
Genere: femminile
Luogo: all’aperto, ma anche in adeguati spazi chiusi
Materiali: la štacchia (piccola pietra piatta e rotonda o un pezzo di piastrella o la buccia tondeggiante dell’arancia), un gessetto o un carboncino o un semplice pezzo di tufo
Descrizione:
Gioco esclusivamente femminile, raramente maschile, giocato preferibilmente tra due compagne. Consisteva semplicemente nel far avanzare la štacchia, secondo precise regole e a livelli crescenti di difficoltà, nei riquadri numerati di uno schema tracciato sul pavimento o per strada sull’asfalto, senza toccare le linee di demarcazione. Il tracciato più semplice conteneva cinque riquadri a destra e altrettanti a sinistra di una linea centrale mediana. Ma esistevano diversi tracciati e modalità di inserimento delle diverse caselle. Occorreva comunque stare attenti a non calpestare le linee delimitanti i riquadri contigui e a rispettare, nel salto, i riquadri, secondo modalità diverse stabilite volta per volta. La štacchia era quasi sempre una pietra piatta o un pezzo di coccio, ma talvolta poteva essere la buccia superiore di un’arancia tagliata trasversalmente. Dopo la conta, la štacchia era gettata dal giocatore in successione in ogni riquadro, iniziando normalmente dal primo a destra e poi dal primo a sinistra e così via sino alla fine, evitando che finisse su di una linea o in un riquadro diverso. Il riquadro occupato dalla štacchia poteva essere utilizzato dal giocatore per riposare (ma erano possibili anche riquadri specifici per riposare) e al suo interno poteva appoggiare entrambi i piedi, cosa non consentita negli altri riquadri. In questo caso il giocatore poteva raccogliere la štacchia. I salti erano tutti effettuati con un solo piede senza cambiarlo e badando a non saltare su di una riga o in un riquadro anche con una piccola parte del piede. Vinceva chi riusciva a fare tutto il percorso riuscendo ad uscire dalla griglia tracciata per terra senza sbagliare con la štacchia, infilando tutti i riquadri, saltando correttamente ed in ordine.
Si riportano alcuni tracciati che consentivano diverse modalità di gioco; gli schemi e le regole erano stabiliti prima del gioco. Da tenere presente che il percorso poteva essere effettuato saltellando (modalità più comune) ma anche tenendo la štacchia su di un piede, sulla fronte o sulla schiena e, infine, ad occhi bendati. In quest’ultimo caso, cioè ad occhi bendati, il giocatore effettuava il percorso avanzando di riquadro in riquadro, nell’ordine stabilito, ma entrando nel primo riquadro, domandava: “Ammè?” (più o meno: posso avanzare?). Gli altri giocatori rispondevano “Salam” (cioè si) oppure “Salami” (oppure Salamoni, cioè, no). Naturalmente esisteva anche il semplice si e no! In caso di esito negativo, il gioco passava all’avversario. Erano possibili diverse modalità di gioco in ordine crescente di difficoltà come si evince da alcuni degli schemi che ricordo meglio:
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