L'aneddotica mesagnese ... e li "bullati"!
Senza nulla voler togliere ad altri autori mesagnesi, l’aneddotica relativa alle vicende della comunità locale porta alla mente subito due nomi:
quello di Giovanni Antonucci e quello di Luigi Scoditti, magistrato il primo, agronomo il secondo..
Giovanni Antonucci nacque a Mesagne il 1° maggio 1888, ma fu registrato il 5 successivo.; studi classici a Lecce e studi universitari a Roma, qui si laureò nel 1913 studiando «La magistratura baiulare nell’antico comune napolitano». Collaborò a numerose riviste, fu tra i fondatori della biblioteca comunale e dopo il matrimonio, già magistrato, si trasferì a Bergamo dove resse le sorti del tribunale, chiudendo la sua carriera quale presidente di sezione della Corte d’Appello di Genova. Morì a Sampierdarena l’8 marzo 1954. Fu «giurista con alcuni “sogni” nel cassetto: pubblicare un volume sul folklore giuridico italiano ed uno sul medioevo pugliese». Da storico fece sempre parlare i documenti. Visto che qui si parla di aneddotica e di tradizioni, un titolo per tutti: «Aneddoti e figure mesagnesi durante il Risorgimento» (1916/17).
Luigi Scoditti, invece, nacque a Mesagne il 17 febbraio del 1896.. Frequentò a Lecce il Liceo Palmieri, per poi proseguire gli studi universitari presso la facoltà di Lettere, che non terminò a causa dell’inizio del conflitto mondiale, finito il quale, cambiando indirizzo di studi, si laureò in Agraria nel 1923. Iniziò la sua carriera professionale presso le Cattedre Ambulanti di Agricoltura. Nel 1950 lasciò il lavoro per dedicarsi con passione allo studio della storia e delle tradizioni locali, come ci dimostrano i suoi scritti, per lo più inediti. «Il suo studio divenne ben presto un vero salotto culturale», ha scritto anni addietro Mario Vinci, ricordano le sue tante amicizie e quella col prof. Rohlfs, «che per i suoi studi di glottologia sul dialetto salentino, era spesso in Puglia e talvolta soggiornava in casa di Scoditti». Si spense in Mesagne il 25 settembre del 1973: aveva 77 anni. Cinquant’anni addietro (1966) pubblicò i suoi «Ricordi di un paese del Salento intorno al 1906», un testo ancora utile per chi voglia approcciarsi a conosce Mesagne e le sue tradizioni.
«Proprio dell'aneddoto è l'esser vero o passare per tale, e si comprende che, da questo punto di vista, possa talora servire ad illuminare personaggi od episodî più di lunghe narrazioni, riassumendo un carattere in una frase, un'epoca in un particolare di storia del costume; e che per contro un aneddoto falso o calunnioso, perpetuandosi, possa offuscare la fama di un personaggio o l'importanza di un evento». Gli studiosi sono unanimi nel considerare questi assunti che, applicati alla storia locale, alle vicende di una comunità cittadina, dimostrano come questa riesca a perpetuare così la propria identità, facendo in modo di consegnare alla memoria collettiva i fatti più salienti che l’hanno riguardata nel corso dei secoli. Talvolta l’aneddoto serve a collegare la storia civile cittadina a quella religiosa e Mesagne non fa eccezioni. Un’esempio? Proprio pensando alla protettrice, la Madonna del Carmine, ed alla sua elezione al posto di Sant’Eleuterio vescovo e martire con la madre Antea ed il compagno Corebo. A legare strettamente la comunità alla sua protettrice fu il terremoto del 20 febbraio 1743. Gli eventi di quel giorno particolare legano moltissime terre del Salento e del Regno di Napoli, ma ogni comunità ha il suo aneddoto da raccontare ed è proprio quello che cementa le relazioni nella comunità, rendendola unica rispetto alle altre vicine. A Mesagne ad esempio, si racconta - e tale aneddoto è conservato anche per iscritto -, che proprio grazie all’intercessione celeste i danni furono limitati, che morì un solo bambino quasi fosse vittima sacrificale, che i mesagnesi nottetempo spalarono cumuli di neve per prelevare l’immagine della Vergine dalla Chiesa dei Padri Carmelitani e recarla in processione nella Chiesa matrice, da sempre luogo di raccolta dell’intera comunità, che nel campanile della stessa custodiva gli antichi documenti dell’Universitas, la comunità civile locale.
Un altro esempio ugualmente legato al «sacro»? Un miracolo nella chiesa di Mater Domini, già nata a seguito di un fatto prodigioso accaduto ad una donna di Mesagne che nei rovi trovò un’immagine della Vergine col bambino che sudava - era Settimana santa - evidentemente per la passione del Figlio. Si racconta che per ritoccare l’antico affresco fu incaricato il più famoso pittore dell’epoca, il quale si mise all’opera iniziando a rinfrescare i colori delle vesti, rima di passare alla parte più delicata del lavoro: il ritocco dei volti. Accadde però - raccontano le cronache - che il pittore, prima di affrontare l’opera più impegnativa cercò di ristorarsi, dormendo qualche momento.
L’aneddotica, quando la critica è aspra, serve anche a mettere in contrasto la propria comunità con quella vicina, alla quale «ribaltare» l’ingiuria. L’esempio che viene subito alla mente è la questione dell’offesa reciproca tra Mesagnesi e Brindisini sulla questione del «bullo». «Brindisini bullati», dicono i mesagnesi, a loro volta offesi «bullati» dai brindisini. Nel dicembre 2013, l’avv. Ennio Masiello, nei suoi «Proverbi e modi di dire del dialetto brindisino" (Ed. La Concordia), spiegò che «il detto "Bullatu ti Misciagni"» era «definizione data dai monelli brindisini ai galeotti del Castello svevo, che essendo marchiati in fronte erano facilmente riconoscibili». Spiegò che «i monelli attendevano i prigionieri presso Porta Napoli, al loro rientro dalla città di Mesagne dove venivano impiegati per lo stradinaggio. Alla vista dei galeotti i monelli gridavano quindi la ormai nota frase: "Sta 'rrivunu li bullati ti Misciagni"». Quindi anche per Masiello i «bullati» non avevano origini mesagnesi, ma tornavano da Mesagne. «I mesagnesi, forti degli studi del magistrato Giovanni Antonucci, che fu fine storico e di aneddoti s’intendeva ponendosi peraltro sulla scia del Croce del quale curò in gioventù un’accurata bibliografia, la pensano diversamente – spiega il prof. Marcello Ignone che anima sul web un sito di tradizioni popolari con diverse centinaia di partecipanti -. Il “bullo” era il marchio dell’infamia che non riguardava la popolazione ma chi aveva subito una condanna e scontava la pena in carcere. Peraltro proprio Antonucci riuscì a datare il “bullo” ai tempi degli Aragonesi, quando i lavori forzati erano di più ampio spettro rispetto ai semplici lavori stradali»
A.Scon.