... Ripensando ad un tumulto del cielo" (di Erika Giordano).

Forse è giusto che sia così. Parlare (e straparlare) nel pieno dei disastri. E dimenticarsene subito dopo. Perché ad essere sbagliato è il verbo che si usa. Dimenticare. Forse. Forse, a pensarci bene, certe cose non le dimentica mai nessuno.

E’ che ci vogliamo tutti proteggere: facciamo una sorta di gara a chiudere gli occhi, a voltarci non appena possibile. Semplicemente, passata la “bomba d’acqua” (va di moda chiamarla così di questi tempi) i nostri pensieri smettono di galleggiare confusamente nei drammi dei pugliesi (ah sì, c’è stata anche lì un’emergenza pochi giorni prima a quanto pare), dei genovesi, degli italiani colpiti da un’alluvione come da un terremoto. La verità è che ci terrorizza lo scenario apocalittico che vediamo in tv. La verità è che pensiamo che non ci riguardi per reprimere la paura… ma dentro di ognuno di noi potrebbe capitare che qualcosa si muova. C’ è chi piange e chi non regge le interviste e cambia canale tv o stazione radio (sì, gli automobilisti ascoltano ancora la radio), c’è chi volta pagina e chi decide di fare qualcosa.

E “la meglio gioventù”, intanto, fa la storia. Nessuno può dimenticare i giovani. I giovani sono state le braccia e la speranza. Ancora una volta, sono ciò che rimarrà. Per sempre. Nel ricordo di chi ha avuto paura di essere solo, negli occhi di chi ha osservato immagini sconvolgentemente monocolore. Il colore della terra ha tinto ogni cosa. Anche il viso! Il viso di chi con tenacia ha continuato a spalare fango per far riemergere la quotidianità persa sotto l’onda violenta della natura.

Nel ’66 come oggi, a Firenze come a Genova, sono stati i giovani a rimboccarsi le maniche, a sporcarsi le mani. Sono stati i giovani a tirare fuori il coraggio per se stessi e per gli adulti, che si sono lasciati trascinare in strada. Pale, secchi, scarponi, guanti e braccia e mani nude per portare conforto. I giovani di oggi sanno essere questo. Lo sanno essere gli scout e i volontari di Croce Rossa, della protezione civile, i militari. E, soprattutto, i ragazzi che si sono sentiti chiamati in prima persona, spontaneamente. È bello sentirsi fratelli, è bella l’empatia che si innesca tra sconosciuti, che nasce da un lavoro comune, senza che nessuno chieda o dia spiegazioni. I giovani ci sono e ci sono stati. “Angeli del fango” li chiamano. Nessuno lo dimenticherà.

Erika Giordano

23.01.2015

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