Carlo: senza casa, ma non senza dignità (di Giuseppe Florio).

Mettiamola così: Carlo non può pasteggiare a tavola sorseggiando un rosso, fare una doccia, mettere il pigiama di pile, guardare un po’ di tv stravaccato sul divano prima di andare a dormire e poi riposare tra i guanciali fino al risveglio. In realtà, Carlo non può fare proprio nulla: non ha né un pavimento né un tetto, ma non vive in via dei Matti al civico zero, lui non ha una casa. Vive da tre mesi nello spazio angusto di una utilitaria malmessa, in compagnia di Snoopy, adorabile cagnolino strappato alla vita da canile.

Raggiungendolo in via Giovanni Antonucci, larga traversa a ridosso della scuola elementare “G. Falcone”, uno si aspetta di trovare una carcassa d’uomo: disperato o inerte e depresso. E invece Carlo Anzini è un monumento alla dignità, è composto, interessante, colto, e racconta una vicenda complicata e dolorosa con inaspettata arguzia.

 

Nella sua vita precedente – ma quanto è intrecciata con quella attuale! – l’umbro Carlo («58, 59, 60 o 61 anni», risponde con vaghezza) era Gik Senders, sceneggiatore di discreto successo, scrittore di libri tuttora in commercio, compositore, scultore e cesellatore di rame. La sua biografia di punto in bianco sprofonda nel baratro: basta una sceneggiatura rifiutata (ma nella cruda realtà dello showbiz viene plagiata), il flop di una piece teatrale, la tragica morte della madre, lo sfratto senza preavviso.

Ora questo omone con i capelli canuti ed in disordine, buddista e vegetariano («Così mi sazio anche con pane e cipolle»), le orecchie forate da piercing, anelli di scarsa fattura alle dita, è costretto all’indigenza. Ma non vi si abbandona, non depone le armi, si sforza piuttosto – anche con mezzi e modi di fortuna – di conservare l’ordine, l’igiene, le buone maniere. Preda dell’insonnia (ma come si può riposare tranquillamente in una vecchia Opel Corsa parcheggiata in periferia, attanagliato dal rigore invernale?), si sveglia di buon mattino, consuma colazioni approssimative quasi sempre procurate dal buon cuore di qualcuno, provvede a lavarsi nei bar che ne tollerano la presenza, tiene molto alla pulizia dei modesti capi di abbigliamento che indossa, conversa con i pochi ma formidabili amici che questa fase difficile della vita gli ha procurato. Non ha rinunciato alle velleità intellettuali e questo è un bene, perché il mordente sembra tenerlo vivo e sano: scrive su un tablet (che un caro sodale gli ha donato) riflessioni e progetti che gli piacerebbe concretizzare. Sui progetti, poi, bisognerebbe aprire un capitolo a parte: Carlo vorrebbe trovare un lavoro («Qualsiasi, sono stato anche un buon cuoco, sono disposto a qualunque cosa»), ma l’idea forte è quella di allestire un centro di accoglienza per persone disagiate. E mentre ne parla, si capisce bene che non pensa a se stesso, ma ai disgraziati di tutto il mondo.

E’ difficile immaginare che una persona in così forti difficoltà coltivi la vena dell’ironia: ma con lui accade, ed è un bell’esempio. Allora i suoi nuovi amici fanno a gara per circondarlo, sollecitarlo all’aneddotica, addirittura portarlo al pub, per un convivio spensierato (il colmo!) attorno ad una birra.

Chi ha un monolocale sfitto, una stanza libera, una villa in campagna disabitata consideri l’idea di ospitarlo, tanto sarà soltanto per poco tempo: qualche settimana ancora, in attesa che si liberi un alloggio presso la struttura ricettiva della Misericordia, come organizzato dall’amministrazione comunale e particolarmente dal disponibile vice sindaco Giancarlo Canuto. Ma non lo si faccia come per elargire un’elemosina. Offrire a Carlo un riparo accogliente dovrà servire a riconoscere a lui la piena titolarità nel cosiddetto consesso civile, a noi la possibilità di sentirci ancora umani.

Giuseppe Florio

 

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