Indulto e amnistia rimedi inutili. Ciò che serve è individualizzare le pene
La reale conoscenza del carcere avviene durante le udienza di convalida o di applicazioni di misure cautelari coercitive, presso la sala colloqui, fredda di inverno e calda come un forno d’ estate. Poi si scopre che quella è la parte migliore della casa circondariale. Credo si tratti per un magistrato delle funzioni più difficili, mettendo a nudo la sua reale capacità di comprensione, perché non deve ricostruire il fatto ma la persona che ha commesso quel fatto; che cosa è diventato dopo la condanna.
Vedi detenuti coperti da vestiti-stracci per proteggersi dal freddo. Senti l’odore nauseabondo e scopri che i detenuti dopo una prima fornitura, sono costretti ad acquistare carta igienica, sapone, shampoo e chi non può permetterselo, non sa come attendere alle essenziali esigenze di igiene (di dignità) e la doccia arriva una volta ogni quindici giorni.
Sgomberato il campo dalle concezioni retributive della pena, non è detto che la privazione della libertà che si realizza con la carcerazione sia sempre la sanzione più adeguata rispetto alla finalità rieducativa. Anzi, in relazione alle condizioni nelle quali in concreto si realizza, il carcere ha di fatto un effetto criminogeno non scongiurando dopo la fine della carcerazione e perfino durante la commissione nuovi reati.
E poi diciamolo: in carcere non incontri mica condannati per reati di corruzione, concussione, bancarotta, perché la “rapina” del tossico per il nostro legislatore, è più grave delle condotte degli amministratori e dei cosiddetti signori della finanza. Nel carcere ci finiscono per la maggior parte, gli uomini che hanno commesso reati legati alla marginalizzazione sociale, alla povertà, al degrado. E come si fa ad eseguire la pena “rieducativa” in condizioni di sovraffollamento ?
La difficoltà per la magistratura di sorveglianza è quella di non esercitare un potere che consenta di determinare in modo proporzionale ed adeguato al fatto e alla persona, la modalità con cui eseguire la pena. Gli automatismi impediscono al magistrato di sorveglianza una modalità di espiazione della pena applicando i principi di proporzionalità ed individualizzazione della pena .
E’ questa la prima soluzione al sovraffollamento, unitamente al potenziamento delle strutture sociali deputate alla rieducazione, al di là della depenalizzazione, dell’amnistia o dell’indulto, che costituiscono un medicamento posticcio per una ferita che riprenderà a sanguinare.
Riporto alcuni casi concreti. Il primo, quello di un ventenne condannato, ad anni dieci di reclusione per l’omicidio di un padre violento ed alcolizzato, aduso ad abusare della madre e dei fratelli minori. Il gup con sentenza definitiva, ha riconosciuto le attenuanti e ridotto la pena. In sede cautelare, il giudice ha concesso gli arresti domiciliari, con autorizzazione a svolgere all’esterno attività lavorativa. Il giovane è stato sottoposto per due anni ad una misura cautelare domiciliare (già espiazione della pena) adeguata al fatto ed alla persona ( percorso di reinserimento sociale).
La sentenza passa in giudicato, il reato e il limite di pena obbliga il pm ad emettere ordine di carcerazione. Il giovane entra in carcere che non consente di svolgere attività trattamentali e lo costringe in una cella per ventiquattro ore. In carcere il giovane mostra inadattabilità e viene sottoposto a procedimenti disciplinari. Entra in depressione, mette in atto atti autolesionisti.
Il secondo caso, quello di un diciannovenne, condannato per rapina aggravata in concorso con altri, alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione. Il giudice della cautela concede gli arresti domiciliari, evidenzia un problematica psicologica e di marginalizzazione, ritenendo così in considerazione dell’unico reato e della occasionalità della condotta, tutelate le esigenze del pericolo di reiterazione .
La sentenza passa in giudicato ed il giovane entra in carcere, la sua prima esperienza; tenta il suicidio tre volte. Attraverso la ricostruzione del contesto socio- familiare, si scopre che è nato da una violenza sessuale; da quando aveva l’età di otto anni è stato costretto ad occuparsi della madre alcolizzata. Vivono in un basso con una zia sulla sedie a rotelle, in un terraneo degradato. Non può beneficiare di permesso premio e cominciare una sperimentazione. Non può essere applicato il beneficio della cosiddetta “svuotacarceri” ai sensi dell’art 1 L 199/2010.
Rimane la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, che non è possibile in assenza di una qualsiasi minima attività risocializzante. Lo stesso dicasi per la semilibertà, non essendovi attività lavorativa. Il giovane uscirà in seguito alla concessione del beneficio della liberazione anticipata, che consente di ridurre la pena, anticipando il termine di espiazione.
Per soggetti condannati a pene brevi, l’esperienza carceraria non è un deterrente ma, al contrario, può rappresentare una concentrazione di stimoli che favoriscono lo sviluppo di interessi criminali; la pena detentiva breve finisce, con il conservare solo il carattere di afflittività non potendo i soggetti che la subiscono partecipare ai programmi di trattamento per riacquistare capacità relazionali anche minime e ciò specie quando la condanna viene eseguita a notevole distanza di tempo dalla commissione del fatto – reato, per la lentezza della giustizia.
E allora: non sarebbe stata adeguata, dall’inizio della esecuzione della pena con il passaggio in giudicato della sentenza l’applicazione di una misura alternativa evitando l’ingresso in carcere? Gli elementi oggetto della prognosi di pericolosità analizzati dal giudice cautelare, che in entrambi i casi, ha applicato gli arresti domiciliari in modo proporzionale al fatto-reato, non sono rimasti gli stessi dopo il passaggio in giudicato della sentenza?
Se l’esecuzione della pena è il modo che ha l’uomo per ritornare a far parte di una società, nell’interesse collettivo, occorre prendere atto degli effetti devastanti che un carcere inadeguato produce.