“Se ne va la gran signora della politica italiana”. A venti anni della morte di Nilde Jotti.
4 dicembre 1999 – 4 dicembre 2019
Con queste parole, il 4 Dicembre 1999, il giornale parigino Le Monde annunciava la scomparsa dell’onorevole Nilde Iotti, la prima donna chiamata, nel 1979, a dirigere in Italia un’assemblea parlamentare.
Coniugando esperienza e curiosità, rigore e serenità di giudizio, dignità e spirito critico si conquistò la stima anche degli avversari politici e si impose come interprete di una concezione alta della politica e custode della centralità e della dignità del Parlamento.
Appena eletta Presidente della Camera, durante una riunione del gruppo parlamentare comunista, rivolta ai nuovi eletti, ci esortò a mantenere un atteggiamento dignitoso non solo nell’eloquio, ma anche nel vestiario e a seguire i lavori delle commissioni di riferimento, specializzandoci su singoli problemi.
Sotto la sua direzione, come di altri che l’avevano preceduta, il Parlamento divenne il protagonista della vita nazionale, il filtro della volontà popolare, la sede della sublimazione della lotta politica e del confronto ideologico e culturale fra i partiti, all’interno dei quali avveniva la formazione e la selezione delle classi dirigenti. Secondo l’articolo 67 della nuova Costituzione inoltre: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Questa nuova cultura politica fece piazza pulita della tradizione liberale durante la quale il Parlamento era stato inteso come stanza di compensazione fra le diverse istanze regionali, mentre il parlamentare, rifiutando l’etichetta di Destra e Sinistra, si presentava come un ascaro che, di volta in volta, assicurava il suo appoggio al governo in cambio di favori. La sua selezione avveniva, inoltre, attraverso il sistema maggioritario, nei salotti dei potenti dove l’adulazione e la fedeltà prevalevano sul merito e l’abilità.
Nello stesso tempo tale cultura realizzava una cesura con il ventennio durante il quale il Parlamento non era stato abolito ma fascistizzato. Il potere era passato dalle mani del legislativo a quelle dell’esecutivo, mentre era scomparsa la separazione dei poteri e si era affermato un regime autoritario. Attraverso l’attacco di D’Annunzio alla rappresentanza bollata come “casta”, il parlamentare era stato retrocesso a semplice Consigliere Nazionale, mentre la sua selezione avveniva attraverso la legge elettorale Acerbo che prevedeva un premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi a chi raggiungeva il 25% dei voti nel collegio unico nazionale.
Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, appena entrò in vigore il ciclo neoliberista, di pari passo alla concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi, iniziò l’attacco ai partiti, ai politici e al Parlamento. Si passò dall’esecutivo al capo; sotto la direzione della Camera della leghista Pivetti, “l’onorevole” venne declassato a deputato, mentre i tecnici presero il posto dei politici.
Oggi siamo in presenza di un nuovo ciclo populista durante il quale il Parlamento è stato trasformato in un Sinedrio di fedeli cortigiani; il deputato è stato declassato a “portavoce del popolo”, mentre si è già proceduto al taglio del numero dei parlamentari, si discute sui costi della politica e sull’approvazione di una legge che preveda l’espulsione dal Parlamento per chi non rispetta le decisioni del capo.
In presenza di questa involuzione democratica, ritornano alla mente le parole pronunciate dall’onorevole Iotti, nel 1982, in occasione della conferenza dei Presidenti delle Assemblee parlamentari europee: “Tutte, o quasi, le Costituzioni degli Stati occidentali presentano, secondo uno schema più o meno simile, un complesso di istituti che, variamente denominati (immunità, privilegi, prerogative, guarantigie), ruotano attorno alla netta affermazione dell’autonomia e dell’indipendenza del Parlamento quale massima espressione della sovranità popolare e organo centrale della struttura dello Stato”. E concludeva: “Si tratta di istituti che rispondono all’esigenza di tutelare l’indipendenza democratica della sovranità da qualsiasi ingerenza”.
Poiché la storia dimostra che la dittatura non consiste nell’abolizione della democrazia, ma nel modo in cui essa viene usata, è bene ricordare che senza la forza morale del Parlamento la democrazia è sempre esposta al pericolo del declino.
Michele Graduata
(Fonte Facebook)