Un comunista italiano: Alfredo Reichlin (di Michele Graduata)

Nei giorni scorsi, a cura di Mariuccia Salvati, è stato pubblicato un libro dal titolo “Alfredo Reichlin: una vita”.

In esso, attraverso una raccolta di saggi e testimonianze, viene ripercorsa la vicenda umana e politica di un prestigioso uomo politico del 900 il cui nome, temo, non dice molto alle generazioni più giovani. Per me e per tanti della mia età, invece, è stato un punto di riferimento preziosissimo per la formazione culturale e politica.

Nato a Barletta, il 26 Maggio del 1925, e trasferitosi a Roma al seguito della famiglia, partecipò giovanissimo alla Resistenza nelle fila delle brigate Garibaldi. Attraverso un canale clandestino fu arruolato nei GAP (Gruppi di azione partigiana) e insieme ad un ristrettissimo gruppo di combattenti organizzò a Roma attentati, sparatorie e sabotaggi fra cui quello di via Rasella.

Dopo la Liberazione i gappisti romani (non più di quaranta) si incontrarono e si conobbero, per la prima volta, in un caseggiato abitato da una famiglia di ferrovieri. Qui, come ha raccontato tante volte, mentre il padrone di casa suonava al pianoforte l’Internazionale, Alfredo fece una “scelta di vita” e decise di diventare comunista. Il 25 Aprile del 1945, appena ventenne, abbandonò gli studi universitari e cominciò a lavorare all’Unità.

Gli esponenti di questa nuova generazione divennero gli interlocutori privilegiati di Palmiro Togliatti nella costruzione del “partito nuovo”, inteso come partito di massa, capace di svolgere una funzione nazionale e di assumere responsabilità di governo.

Dopo aver seguito, prima, la cronaca nera, poi, i resoconti parlamentari, nel 1957, Reichlin divenne direttore dell’Unità che, per Togliatti, doveva essere il Corriere della Sera del proletariato.

Da questa tribuna, all’inizio degli anni Sessanta, partecipò allo scontro politico che si aprì all’interno del Pci fra ingraiani e amendoliani sul giudizio da dare all’esperimento del centro sinistra. I primi sostenevano che il capitalismo italiano era in grado di risolvere gli squilibri sociali e che il compito dei comunisti consisteva nel mettere in campo un disegno alternativo. I secondi, invece, insistevano sulla politica delle cose ossia su riforme in grado di risolvere i problemi oggettivi che venivano maturando.

Alfredo si schierò con Ingrao e, mentre Togliatti rassicurava con queste parole: ”Loro ci sfidano, noi li sfidiamo…..chi ha più filo tesserà”, Pajetta accusò l’Unità di “manifestazioni di scissionismo o di leggerezza”. In presenza di queste divergenze, Reichlin decise di farsi da parte, sostituito da Mario Alicata. Pochi mesi dopo, la Direzione del partito lo indicò come segretario regionale in Puglia con la motivazione che bisognava “fargli fare una esperienza sul campo”.

Nell’autunno del 1962 Reichlin si trasferì nella nostra regione e il suo impegno prioritario divenne quello di svecchiare la cultura ed i programmi del partito e del sindacato.

Nel 1963, durante una riunione del Pci a Brindisi per discutere sulla proposta di Amendola di unità fra comunisti e socialisti, ho incontrato per la prima volta Alfredo Reichlin.

Nel frattempo, le “rivolte” di Battipaglia nel 1969 e di Reggio Calabria nel 1970 avevano spostato a destra il quadro politico nazionale e posto il problema di come condurre, contemporaneamente, la lotta al rinascente fascismo e al sistema di potere democristiano. Il nodo fu sciolto nel 1972 in un convegno all’Aquila dove Reichlin, divenuto nel frattempo prima membro della Direzione e poi della Segreteria nazionale del Pci, si fece interprete della necessità di selezionare, accanto ai quadri contadini e operai, i nuovi soggetti che, nel frattempo, si erano imposti nel mondo giovanile e studentesco.

Dopo la generazione dei togliattiani si affermò quella berlingueriana. Da allora e per interi decenni ho vissuto insieme ad Alfredo, prima come segretario di Federazione poi come deputato, una parte della storia politica della sinistra e del Novecento.

Durante gli anni di più intensa frequentazione, di lui ricordo essenzialmente tre insegnamenti.

Il nesso inscindibile fra politica e cultura per analizzare il mondo nella sua complessità e per offrire ai più deboli gli strumenti conoscitivi necessari per stare al passo con la realtà che muta continuamente. Per questo ha sempre insistito, fino alla fine, sulla necessità di dotare la sinistra di un nuovo pensiero, di un nuovo linguaggio e di un nuovo soggetto politico organizzato.

Ansioso di futuro e convinto che l’Italia non poteva essere salvata da una logica oligarchica, nel corso delle discussioni insisteva sempre: “Se vogliamo che le cose migliorino dobbiamo pensare che possono migliorare; la scelta è fra un mondo di possibilità e un mondo di fallimenti”.

Profondo conoscitore della realtà meridionale, in presenza delle più fantasiose giunte anomale, insegnava: “Le alleanze vere non si fanno sulle piccole tattiche e sulle convenienze del ceto politico…..Nascono dalla consapevolezza che è venuto in discussione qualcosa che ha a che fare col bene comune, che è necessario difendere per affermare l’interesse nazionale”.

Quando ormai le nostre strade politiche si erano divise, l’ultima volta l’ho incontrato a Roma mentre ci recavamo ad un convegno sulla politica estera.

Dopo avermi invitato a prendere un caffè, ci siamo guardati negli occhi senza parlare.

Solo all’uscita ho rotto il silenzio ricordandogli che non avevo dimenticato il consiglio che mi aveva dato appena eletto Segretario di Federazione: “il compito del politico consiste nel volare alto, quello di un politico di sinistra nel fornire ai più deboli una diversa visione del mondo”.

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