Ancora Draghi? (di Michele Graduata)
Mentre il mondo intero si dibatte con la crisi sanitaria, la destra sovranista populista e xenofoba è all’opera,
in alcuni casi, per sperimentare nuove soluzioni politiche, in altre, per orientare l’opinione pubblica su come affrontare la futura inevitabile crisi economica. In questo contesto si collocano le decisioni assunte ieri dal parlamento ungherese e la martellante campagna mediatica a favore di Mario Draghi, quale demiurgo della situazione italiana.
Non siamo in presenza né di complotti, né di arcani misteri: tutto avviene alla luce del sole. Come la Destra deve gestire a suo vantaggio le crisi che, ciclicamente investono il sistema capitalistico, lo ha spiegato chiaramente l’economista liberista Milton Friedman. Scrive, infatti, il padre fondatore del monetarismo: “Solo una crisi, reale o percepita, produce un cambiamento. Quando quella crisi arriva, le azioni da intraprendere dipendono dalle idee già in circolazione. La nostra funzione è quella di sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle vive e pronte fino a quando ciò che era politicamente impossibile diventi politicamente inevitabile”.
Sulla base di questo assunto il Parlamento ungherese ha votato lunedì, con 138 voti a favore e 53 contrari, i pieni poteri, senza limiti di tempo, per il premier Viktor Orban. La legge approvata prevede, inoltre, la possibilità di governare sulla base di decreti presidenziali, la chiusura del Parlamento, la revisione o la sospensione di leggi esistenti, la limitazione della libertà di stampa e la reclusione fino a cinque anni per chi diffonde notizie false.
A differenza dell’Ungheria, in Italia siamo ancora in presenza di una campagna di Destra volta ad orientare l’opinione pubblica per una replica della soluzione Mario Draghi, come “salvatore della patria”. Il compito di affrontare la crisi, che aveva investito l’Italia tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, gli era già stato affidato sulla base delle decisioni assunte il 2 Giugno 1992 sul panfilo Britannia della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, ormeggiata al largo di Napoli e in crociera verso l’Argentario. Qui, in presenza di banchieri, finanzieri, uomini d’affari e rappresentanti della banca d’affari Goldman Sachs, fra i quali l’italiano direttore generale della Confindustria Innocenzo Cipolletta, l’economista Beniamino Andreatta, il ministro Giulio Tremonti e lo stesso Mario Draghi, nelle vesti di direttore generale del Ministero del Tesoro, si decise la privatizzazione dell’industria e del sistema creditizio italiano.
Il 28 Giugno 1992, appena si insediò il governo tecnico di Giuliano Amato, fu presentato un disegno di legge delega per la trasformazione in società per azioni delle società di Stato (Telecom, Seat, Enel, Aeroporti di Roma, Autostrade e degli enti creditizi pubblici) con la motivazione che la crisi offriva l’opportunità di passare dal capitalismo delle partecipazioni incrociate ad un capitalismo popolare mediante la diffusione di un azionariato di piccoli investitori. Il compito di gestire i tempi e le modalità dell’operazione fu affidato a Mario Draghi che lo portò a termine al riparo di qualsiasi giudizio democratico.
Sulla congruità del prezzo di vendita delle società pubbliche, per un ammontare di 220. 000 miliardi di lire, si è già espressa la Corte dei Conti scrivendo: “Quanto alle modalità con le quali sono state effettuate le privatizzazioni si evidenziano una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro mancato monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro delle responsabilità fra amministrazioni, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego nella riduzione del debito”.
Per quanto riguarda, infatti, “l’elevato livello dei costi sostenuti”, denunciato dalla Corte, furono pagati 2.200 miliardi di lire a banche d’affari, fra cui la Goldman Sachs per la loro attività di consulenza.
Nel 2001, dopo la missione salvifica svolta a favore della svendita dell’industria pubblica italiana, Draghi lasciò l’incarico al Ministero del Tesoro ed assunse quello di vice presidente della Goldman Sachs, guadagnandosi l’accusa di Cossiga di essere “un vile affarista”.
Oggi la Destra pensa di poterlo riutilizzare, attraverso la formazione di un governo di salute pubblica, per mettere a frutto le sue capacità che non consistono nell’abolire o svuotare dall’interno la democrazia, ma nel disintegrarla in modo controllato.
In un’epoca in cui tutti sopportano tutto e nello stesso tempo trovano tutto intollerabile, non basta indignarsi: occorre una Grande Trasformazione in grado di liberare la società dall’asservimento ideologico e politico del liberismo.
Michele Graduata
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