Il Primo Maggio (di Michele Graduata)
Storicamente le classi dirigenti italiane, incapaci di pensare all’interesse generale,
hanno sempre puntato a soluzioni autoritarie e violente per tenere a bada il mondo del lavoro.
Si cominciò con le cannonate di Bava Beccaris nella Milano del 1898 contro donne, uomini, vecchi e bambini che protestavano per l’aumento del prezzo del pane; si continuò con gli eccidi dei contadini nel Mezzogiorno d’Italia e si arrivò al fascismo durante il quale, come per esempio in Puglia, squadre armate di mazzieri e pregiudicati assoldati dagli agrari a trenta lire al giorno, il doppio del salario di un bracciante, venivano utilizzate per compiere spedizioni punitive contro le Camere del lavoro, i partiti di sinistra e singoli “sovversivi”.
Il 1 Maggio del 1886, a seguito di uno sciopero indetto negli Stati Uniti per la riduzione a otto ore dell’orario di lavoro, divenne il simbolo delle rivendicazioni dei lavoratori di tutto il mondo.
La festa, adottata in Italia, a partire dal 1889, fu anticipata dai fascisti al 21 Aprile e fatta coincidere con il Natale di Roma.
Quando il 1 Maggio 1947 tornò ad essere festeggiata, coincise con l’eccidio mafioso di Portella della Ginestra.
Contro il fascismo, inteso come “rivelazione” di tutte le contraddizioni maturate a seguito di una ritardata unità nazionale e di una nobiltà retriva e parassitaria, si erano battuti i partigiani, molti dei quali, una volta diventati padri costituenti, si impegnarono per la costruzione di una società “diversa” nei suoi assetti di potere economico e politico e nella distribuzione della ricchezza.
Di fronte “alla miseria profonda e terribile di cui soffriva la grande maggioranza del popolo italiano” e in presenza di milioni di disoccupati, la preoccupazione principale delle forze di sinistra e dello stesso Di Vittorio, a nome della Cgil unitaria, divenne quella del lavoro per la ricostruzione immediata del paese.
Per questo, nella discussione parlamentare sulla Costituzione, il volto con il quale venne presentato il nuovo Stato fu quello proposto nell’articolo 1 che giunse in aula con questa formulazione: “L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi”.
Dopo la bocciatura dell’emendamento presentato da Amendola, Laconi, Iotti e Grieco che recitava: “L’Italia è una repubblica democratica di lavoratori. La sovranità appartiene al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, il compromesso si raggiunse attraverso l’approvazione dell’emendamento Fanfani, Grassi, Moro, Tosato, Bulloni, Ponti e Clerici che recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”.
Da allora e per oltre quarant’anni il lavoro, inteso come un diritto della persona umana da cui dipende la sua dignità, è stato il fondamento su cui si è retta la critica del movimento operaio contro le ingiustizie della società. Durante questo periodo, le lotte per l’aumento del salario sono state utilizzate, allo stesso tempo, per difendere le condizioni di vita elementari e come strumento di politicizzazione di larghe fasce popolari.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con l’avvento di una nuova ideologia neoliberista, il lavoro e le sue tutele sono diventati un problema mentre, di pari passo, si diffondeva la convinzione secondo la quale soltanto la mano invisibile del mercato avrebbe risolto tutti problemi.
Il nuovo pensiero dominante, infatti, predicava che soltanto lo sgravio fiscale ai ricchi avrebbe provocato dinamismo che poi sarebbe “sgocciolato” sui poveri.
In realtà, accanto all’attacco al lavoro, ai partiti, ai sindacati e al Parlamento, che questa volta avveniva con le nuove armi dello spread, del debito pubblico e delle misure di austerità, abbiamo assistito alla concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochi.
Ormai, insieme all’emergenza sanitaria del coronavirus, si parla anche delle misure economiche per la ricostruzione.
A differenza di quanti puntano al ritorno alla normalità, ad aggiustare la vecchia Italia con le sue ingiustizie e le sue disuguaglianze, è in corso un dibattito fra chi, invece, punta all’apertura di una nuova stagione politica per costruire una nuova Italia. Fra questi ultimi vi è il premio Nobel per l’economia Stiglitz il quale propone un mutamento di paradigma.
A differenza del passato quando la sinistra, per far diminuire le diseguaglianze, interveniva a posteriori attraverso la distribuzione della ricchezza, oggi “bisogna intervenire sulla predistribuzione, ovvero sul modo in cui si formano i redditi, alzando quelli minimi e ridando potere ai sindacati”. Si tratta di un nuovo terreno del gioco di una partita il cui esito dipenderà dalle forze in campo che la sinistra, i Sindacati e le forze democratiche e progressiste sapranno mettere in campo.
Per favorire questo percorso resta valida la lezione di Calvino il quale ammoniva che nei momenti di pesantezza è necessario guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica: per questo suggeriva di fare affidamento sull’impegno e la capacità di costruire di Vulcano e la leggerezza e la creatività di Mercurio.
Michele Graduata