Verso le presidenziali americane (Michele Graduata)

La rivoluzione conservatrice neoliberista di Ronald Reagan aveva diffuso la convinzione

che un nuovo ordine globale e nazionale, capace di diffondere progresso e ricchezza generalizzata, si potesse realizzare attraverso la mano invisibile del mercato e non più secondo la razionalità umana della politica. Di pari passo all’accettazione acritica di questo assunto, non solo da parte dei repubblicani, ma anche dei democratici americani, perdevano vigore le politiche progressiste capaci di tutelare le fasce più deboli della popolazione, mentre aumentavano le disuguaglianze sociali e, nello stesso tempo, si affermavano movimenti popolari schierati sempre meno secondo l’asse tradizionale di Sinistra-Destra, e sempre più come rivolta dal basso verso l’establishment.

Proprio nel momento in cui si distruggevano i legami sociali, si offuscavano le vecchie identità collettive, aumentava la precarietà non solo nella sfera lavorativa ma anche nella vita delle persone, fu eletto presidente il democratico Bill Clinton. A differenza di Roosevelt che aveva costruito lo Stato sociale e fatto diminuire di oltre il 30% i redditi dell’1% della popolazione che si era arricchita durante la Grande Depressione, Clinton inaugurò la “terza via” di conservatorismo virtuoso. Sul piano internazionale, presentò l’America come lo Stato illuminato autorizzato a costruire un nuovo ordine di difesa missilistica per proteggersi dagli Stati canaglia mentre, sul piano interno, negò le prestazioni sociali a coloro che non cercavano o accettavano qualsiasi lavoro; legalizzò i prodotti finanziari derivati che, sottratti a qualsiasi tipo di regolamentazione, dilagarono sul mercato provocando la crisi del 2008. Attraverso la firma del trattato Nafta, infine, favorì, come denunciò la destra, “l’invasione” di lavoratori ispanici per la raccolta del mais che l’immigrazione regolare non riusciva più a soddisfare.

Dopo la vittoria del repubblicano George Bush, strappata con il 22% dei consensi, contestata per brogli elettorali e finanziata per 657.000 dollari dalla Chevron Oil Corporation, l’America fu presentata, sul piano internazionale, come il paese scelto da Dio per redimere il mondo, attraverso la guerra preventiva, dai “nuovi barbari terroristi islamici” che avevano attaccato le Torri gemelle. Sul piano interno estese e rese più intrusivi i poteri del governo, mentre ridimensionò drasticamente le sue funzioni di garanzia del benessere sociale. In presenza, infatti, di una economia che allargava ogni giorno la disparità fra le classi sociali, adottò misure a favore dei ricchi, mentre i meno abbienti e i poveri, privi di rappresentanza politica, non riuscivano a trovare un interlocutore attraverso il quale esprimere il proprio malessere.

Lo spostamento a destra del partito repubblicano si accentuò ulteriormente con l’elezione del democratico Barack Obama, fino al punto di farne un movimento insurrezionale. Dopo la stagione della forza e dell’arroganza incarnata da Bush, il nuovo presidente, eletto con il voto dei giovani, puntò a rifare l’America attraverso “un nuovo inizio” di dialogo e responsabilità. Sul piano internazionale, infatti, annunciò di voler inaugurare una nuova stagione incentrata sul multilateralismo, ossia sul massimo coinvolgimento degli altri attori presenti sulla scena mondiale mentre, in politica interna, si affidò alla politica per incoraggiare gli americani a diventare cittadini protagonisti; promosse leggi sul welfare, programmi contro la povertà e considerò le regole interne ed internazionali come vincoli da rispettare. Naturalmente, come denunciò il premio Nobel per la letteratura Soyinka, “Obama non è il nostro presidente, non è un presidente africano, è stato eletto per fare il presidente degli Stati Uniti, deve curare gli interessi dell’America” anche se, subito dopo, aggiunse: “Con lui cambierà lo sguardo dell’America verso il resto del mondo, il suo modo di guardare dall’alto in basso gli altri paesi”.

Contro questa nuova cultura politica, che parlava di multiculturalismo, di diritti civili e che, di fatto, faceva sfumare l’ideale di una società governata dai bianchi, si schierarono alcune forze sociali come gli evangelisti, i nativisti, i suprematisti, i razzisti, i complottisti, i bianchi delle classi lavoratrici e del ceto medio-basso, abitanti delle periferie e delle zone rurali non organizzati politicamente, ma arrabbiati per la crisi economica e convinti che la loro cultura tradizionale fosse ormai sotto attacco. Il partito repubblicano, convinto che il suo programma conservatore classico a favore di ricchi e privilegiati non era più presentabile, ma soprattutto non aveva possibilità di successo, si rivolse a queste forze cavalcando la paura, l’odio, l’insicurezza e promettendo loro non la distribuzione della ricchezza, ma assistenzialismo e la difesa dei valori tradizionali della famiglia e della patria. Si trattava di movimenti, fazioni, folle solitarie, da sempre in lotta fra loro, che Trump riuscì a pacificare attorno alla sua persona dando loro un senso di appartenenza e impegnandoli per una “nobile causa”.

Cavalcando, infatti, la retorica “dell’eliminazionismo” degli stranieri illegali e “l’ultranazionalismo” del First America per farne una comunità più pura; affidando la restaurazione del domino americano alla rottura dell’architettura multilaterale da sostituire con accodi bilaterali, “The Donald”, nel corso del primo mandato presidenziale, ha trasferito il partito repubblicano nelle mani di questi estremisti di destra, mentre si presenta alle prossime consultazioni alla testa di un movimento protofascista che rappresenta un pericolo per la democrazia americana e per il mondo intero.

Dopo aver allontanato, per la prima volta, l’America dalla tradizione liberale con la rielezione di Trump si corre il rischio, perciò, di una trasformazione del suo sistema politico-istituzionale in senso stabilmente autoritario. Si tratta di una partita aperta il cui esito dipenderà oltre che dal giudizio che gli americani daranno sulla gestione del coronavirus e sulle misure economiche per uscire dalla crisi, anche dalle politiche che saprà mettere in campo il partito democratico e dall’atteggiamento elettorale che questa volta, a differenza di quella precedente, assumeranno i supporters di Sanders.

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