L’Italia di Berlinguer (di Michele Graduata)
A conclusione del XIII Congresso del Pci, svoltosi a Milano dal 13 al 17 Marzo del 1972, fu eletto Segretario del Pci Enrico Berlinguer.
Dopo Gramsci, Togliatti e Longo toccò alla quarta generazione dei berlingueriani misurarsi con una situazione internazionale in movimento e con la crisi economica, politica, sociale e morale che aveva investito il nostro paese.
Dopo la tragica stagione della guerra fredda, che aveva portato il mondo sull’orlo del disastro nucleare, pur tra difficoltà, il processo di distensione andava avanti in modo inarrestabile: di pari passo, si affermava il diritto di ogni nazione alla propria autodeterminazione. La tragica fine dell’esperienza di Allende in Cile, la sconfitta dei colonnelli in Grecia, la fine del fascismo in Portogallo, la transizione democratica avviata in Spagna dopo l’uscita di scena del generale Francisco Franco e l’avanzata delle sinistre in Francia ed in Italia spinsero Berlinguer a ricercare, dopo il mondo diviso in zone d’influenza e blocchi contrapposti, una nuova collocazione internazionale dell’Italia.
La sua analisi partiva dalla constatazione che un paese di medie dimensioni, collocato nell’Europa mediterranea, dove si facevano sentire i contraccolpi dei conflitti in Medio Oriente, non poteva porsi obiettivi di grande potenza, ma neanche limitarsi a vivere ai margini di un equilibrio realizzato da altri: la nuova missione dell’Italia consisteva nel contribuire in modo promozionale al mantenimento della distensione e della pace. Sulla base di questo assunto il nuovo leader si pose il problema di come sciogliere il “legame di ferro”, che fino a quel momento aveva unito il Pci all’Urss, e lo risolse con uno “strappo” collocando il Pci nel solco dell’europeizzazione. Il nuovo riposizionamento internazionale del Pci all’interno di una Europa Unita che non fosse “né antisovietica, né antiamericana” si legava, in modo imprescindibile, con l’esigenza di perseguire in ogni paese le battaglie per la trasformazione in senso democratico degli assetti economici, politici e sociali.
Sul piano interno l’Italia, infatti, dopo i grandi movimenti di massa degli studenti e degli operai del ‘68-69, nel corso degli anni Settanta era costretta a misurarsi con la crisi del centro-sinistra, l’imperversare del terrorismo, la diffusione delle trame nere e il dilagare della corruzione. Si trattava, in sostanza, di un complesso di problemi riconducibili alla fragilità della democrazia italiana che, storicamente, le classi dirigenti italiane hanno sempre risolto ricorrendo a crisi di regime o a soluzioni autoritarie.
Per evitare questa deriva e in presenza di un Pci schiacciato all’interno di una situazione così descritta: “Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro. Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo anche nella libertà”, Berlinguer si mise alla ricerca di una via originale di costruzione del consenso della stragrande maggioranza della popolazione italiana attorno ad un programma di profonde trasformazioni sociali, senza sospingere in posizione di ostilità vasti strati del ceto intermedio.
Per uscire dalla crisi economica si rese disponibile ad accettare i “sacrifici” che venivano richiesti, a condizione che si procedesse verso “un nuovo assetto economico sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, del rigore, della giustizia, del godimento dei beni autentici, quali la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e saldo rapporto con la natura”.
Sul piano politico, dopo la crisi del centro sinistra, propose un ”compromesso storico”, tra le tre forze popolari di ispirazione comunista e socialista con quelle di ispirazione cattolica-democratica e lo motivò con queste parole: “Il compito nostro essenziale è quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno ad un programma di lotte per il risanamento e rinnovamento e dell’intera società e dello Stato la grande maggioranza del popolo, e di far corrispondere questo programma a uno schieramento di forze politiche capaci di realizzarlo”.
Affrontando, infine, la questione morale che si era diffusa in larghi strati della società e aveva trasformato “i partiti in macchine di potere e di clientele, scarsa e mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile, zero” propose, inascoltato, una loro autoriforma.
Si trattava di un complesso di questioni che, mettendo in discussione i vecchi blocchi di potere, furono osteggiati in campo internazionale e in larghi settori della Dc e del Psi: pur al centro del dibattito politico, essi rimasero irrisolti anche per la prematura scomparsa di Moro e Berlinguer che ne erano stati i più strenui difensori. Con la morte di Berlinguer finisce la storia del comunismo italiano e quella di un politico che era stato percepito da larghe fasce popolari come un punto di riferimento e una speranza di riscatto. Il Presidente Pertini, trasportandolo sull’aereo di Stato dall’ospedale di Padova a Roma, lo ricordò con queste parole: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”.
Oggi la situazione internazionale e quella italiana, analizzati da Berlinguer, sono profondamente mutati eppure, a distanza di tanti anni dalla morte, resta ancora immutata in larghi strati popolari la stima e l’affetto attorno alla sua figura. Credo che tutto ciò sia riconducibile alla dimensione etica della politica con la quale plasmò l’identità del Pci e formò intere generazioni di dirigenti comunisti.
La politica di Berlinguer è il suo ritratto. In contrasto con quella caratterizzata da intrighi, meschinità, interessi privati, oscure ambizioni personali e squallide manovre di palazzo, ne predicò e praticò un’altra che orientava e guidava la società e non si faceva trasportare da spezzoni di essa. Con lui la politica, attraverso l’elaborazione di “pensieri lunghi”, divenne camminare insieme, convincere senza arroganza e spiegare senza sicumera; uomo politico non corroso dalla vanità e dall’ossessione di apparire e di primeggiare, intese la politica, come esperienza umana, capace di cambiare in meglio la vita delle donne, degli uomini e del mondo del lavoro.
Rimasto fedele agli ideali della sua gioventù, con il suo pensiero e la sua azione Berlinguer parla ancora ai figli del nostro tempo perché, nel frattempo, i partiti si sono trasformati in feudi personali al servizio di capitani di ventura; invece di leader politici siamo in presenza di populisti che dicono tutto e il contrario di tutto; la politica è diventata una ancella della grande finanza, mentre il Parlamento è vissuto come un impaccio, un costo, e per questo si propone la riduzione dei suoi rappresentanti.
La politica è lo specchio dei tempi: quando assolutizza il presente e non crede più che esso possa essere cambiato, diventa occupazione del potere, amministrazione dell’esistente che non scalda i cuori e non dà la speranza di un futuro migliore. Per le nuove generazioni che si avvicinano alla politica vale, ancora oggi, l’insegnamento di Berlinguer: “Dietro ogni realtà vi sono sempre altre possibilità”. Soprattutto nei momenti di crisi, di scetticismo e di disincanto, quando una parte della società è disposta a consegnarsi nelle mani di un uomo solo al comando, tocca alla politica fecondare e battersi per una nuova idea di futuro.
#CiaoEnrico
Michele Graduata
11 giugno 2020