A sinistra: le ragioni del No.
A poche settimane dal voto al referendum sulla riduzione del numero dei Parlamentari l’attenzione alle ragioni probabilmente più vere della riforma,
e delle prevedibili conseguenze di una sua definitiva approvazione popolare, nonostante argomentazioni e appelli di Comitati, Associazioni e costituzionalisti, sembra sempre più immiserirsi a occasione da utilizzare per rafforzare o indebolire la presenza politica del Movimento 5 Stelle, e quindi consolidare il governo Conte o favorirne la crisi.
Occorre liberare le motivazioni del NO, come anche quelle del SI, dalle ricadute immediatamente contingenti e qualche volta anche di effimera convenienza, e cercare un sereno confronto sul loro possibile significato politico e sociale.
Ora le ragioni del NO, pur avendo per oggetto la modifica di soli tre articoli della Costituzione, tutti riguardanti la riduzione del numero dei Parlamentari, sono comunque collegabili a quelle del Referendum del 2016 e del 2006, quando il popolo sovrano ha respinto uno stravolgimento esplicito della Carta del ’48, in presenza di riforme costituzionali che svuotavano la funzione del Parlamento, compromettendo la divisione e l’equilibrio dei poteri.
Invitiamo a votare No anche al prossimo referendum del 20-21 settembre sulla base di due essenziali considerazioni: una con riferimento al merito e ad alcune tendenze generali ultraventennali in cui si colloca, l’altra con riferimento ad una specificità del nostro Paese lungo un secolo di avvenimenti.
1- La Riforma ridarà centralità al Parlamento?
Una domanda sorge previa: la riduzione del 36 % del numero dei Parlamentari, pur nella continuità di un sistema bicamerale perfetto, può costituire un modo per ridare centralità al Parlamento, mortificato da pratiche politico-istituzionali ormai consolidate e comportamenti di gruppi e singoli che poco hanno a che fare con la “disciplina e onore” e con il rispetto delle Istituzioni?
La Costituzione affida al Parlamento una triplice primaria funzione: rappresentare la Nazione, la quale deve essere presente nelle Istituzioni nella pluralità dei suoi orientamenti politico-culturali; esercitare il compito di legiferare; controllare atti e decisioni del Governo sulla base della fiducia ricevuta dalle Camere.
Per rispondere alla domanda occorre necessariamente collegare tale triplice funzione, quindi la centralità effettiva del Parlamento e il conseguente funzionamento degli Istituti di garanzia (elezione del Presidente della Repubblica, dei Giudici della Corte costituzionale, dei componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura) alla legge elettorale.
Ora da più di un venticinquennio il nostro Paese subisce riforme elettorali imposte dai Governi di turno, in alcuni articoli dichiarate poi anche incostituzionali dalla Suprema Corte, attraversate da una logica generalmente dominante: penalizzare le minoranze e il pluralismo politico, affidare gli eletti al controllo del leader del partito, individuare comunque modalità e meccanismi elettorali per favorire una rappresentanza la più manovrabile possibile. Fino alla irriducibile incompatibilità tra l’attuale legge elettorale e le responsabilità e funzioni affidate ad un Parlamento che si vorrebbe di 600 membri tra Camera e Senato: una incompatibilità ampiamente analizzata da Associazioni e Comitati in queste ultime settimane, dalla penalizzazione-sparizione delle minoranze al sovradimensionamento di alcune rappresentanze regionali a scapito di altre. Né può rassicurare l’impegno promesso da rappresentanti del Governo, della maggioranza parlamentare e anche dell’opposizione, ad approvare una nuova legge elettorale che elimini le incongruenze più rilevanti di quella attuale, per renderla compatibile con l’elezione di un Parlamento così ridotto nei numeri.
E’ presente infatti un orientamento abilmente veicolato dai grandi centri del potere economico-mediatico e, pare, consolidato, teso a privilegiare i processi di centralizzazione e personalizzazione del potere, che prevede e giustifica le prevaricazioni delle maggioranze, spesso artificiosamente costruite da leggi elettorali di volta in volta adattate, anche in decisioni e atti che lo spirito e la prassi costituzionale invitano ad assumere in atteggiamento di condivisione con le minoranze proprio perché riguardano Organi di garanzia.
La riforma riguardante la riduzione del numero di Deputati e Senatori, al di là anche di intenzioni di singoli e gruppi, per i contenuti che l’hanno supportata e la modalità con cui è stata propagandata, si colloca in questo percorso di impoverimento della democrazia costituzionale, di allontanamento dal corpo vivo dello Statuto, che invece di essere attuato, viene marginalizzato nella prassi e nella coscienza attraverso strumenti sempre nuovi di “distrazione di massa”.
2- Quale “modello” dietro il taglio dei parlamentari?
L’occasione può essere buona per invitare a porre un po’ di attenzione ad una vicenda nazionale che, secondo alcuni studiosi, dal 1920 ad oggi presenta i caratteri di un vero laboratorio politico piuttosto problematico.
Mentre nel primo dopoguerra esplodeva il conflitto sociale, la crisi economica e quella delle Istituzioni liberali abbiamo inventato il fascismo: una soluzione che può essere considerata il primo modello-esperimento totalitario a cui tanti altri Paesi si sono ispirati. La violenza della sua antipolitica e del suo antiparlamentarismo sono note. Sappiamo come è andata a finire: la disfatta prima e quel precesso di deresponsabilizzazione e autoassoluzione popolare poi, unitamente alla costruzione di un sistema politico stabile fondato sui partiti che hanno scritto la Costituzione.
Ad ascoltare oggi dichiarazioni e umori sulla perniciosità della politica e del Parlamento viene subito da pensare che l’eredità del fascismo è questione viva e apertissima, ma ancora ostinatamente rimossa.
Con lo sgretolamento dell’URSS e la fine della guerra fredda quel sistema stabile si è volatilizzato: nella crisi così determinata abbiamo inventato il berlusconismo. Un modello e uno stile politico per il quale un maggiorente dei media, rivolgendosi direttamente ai cittadini attraverso le televisioni, si presenta come l’uomo comune, verrebbe da dire come l’uomo qualunque, estraneo alla casta dei politici, dei parlamentari, degli intellettuali, di coloro che vivono di incarichi istituzionali, l’uomo che si è fatto da sé e quindi può aspirare, adesso sì, legittimamente , al governo del Paese.
Un modello per il quale non c’è bisogno di partito, di organizzazione e di organismi interni che discutono e decidono, di iscritti e militanti che partecipano alla vita politica: perché basta un uomo solo al comando. Un modello a cui si sono poi ispirati tanti altri Paesi. Un modello che ha sdoganato definitivamente e formalmente il fascismo, raccontando frottole e alimentando una cittadinanza passiva che ha concimato quel terreno “afascista” senza il quale il fascismo è difficile che possa prosperare.
Non deve sfuggire che dentro la riforma oggetto del referendum del 20 settembre c’è un brodo qualunquista incline alla demagogia sulla casta e sui costi della politica, cioè della democrazia: mentre la vera casta, poco visibile, decide indisturbata al riparo nei paradisi fiscali e nei paradisi della corruzione.
Le risposte da offrire alla crisi della democrazia hanno bisogno di un’altra direzione: rafforzare quelle “rigidità” costituzionali che promuovono un esercizio diffuso del potere e offrono garanzie sulla sua regolamentazione e il suo controllo.
Brindisi, 8 settembre 2020
Giovanni Calcagno – Giancarlo Canuto – Luca Esperti – Antonio Greco – Salvatore Lezzi – Paola Pizzi – Maurizio Portaluri – Fortunato Sconosciuto – Movimento A Sinistra – Brindisi