L’illusione dei tecnici (di Michele Graduata)
L’esplosione e la gestione della crisi finanziaria del 2008 e di quella sanitaria del 2020 hanno messo in evidenza e ulteriormente aggravato i mali strutturali del nostro paese.
Le drammatiche fratture fra garantiti e non garantiti, le disuguaglianze di genere e quelle generazionali, momentaneamente tamponate con scelte emergenziali, prima o poi, dovranno essere affrontate con interventi strutturali.
Si tratta, perciò, di fare tesoro degli errori compiuti per ripartire e affrontare le sfide del futuro. Ma ripartire, per la sinistra, non può significare cominciare daccapo dopo una manutenzione tecnica, ma iniziare una nuova storia, una nuova partita, una nuova sfida. Dopo lo Stato d’emergenza e il governo dei tecnici, che si affidano al sapere, alla neutralità della scienza e al decisionismo, soltanto una classe dirigente saggia, responsabile, che parla a nome dei deboli ed è capace di elaborare una nuova visione del mondo, migliore di quello di prima, potrà aspirare a guidare e non solo ad amministrare questo paese.
Il sapere dei tecnici è una fonte di conoscenza della quale i politici devono sicuramente tenere conto, ma non può essere l’unica regola di condotta dell’arte di governare. La politica, infatti, considera ogni soggetto abbastanza competente per partecipare alle decisioni che lo riguardano, mentre la tecnica prevede la esclusione di interessi fondamentali della società, perché per loro parla l’esperto, novello Barone Rampante, “che i cittadini non possono raggiungere per la distanza che lo separa dai suoi simili”.
Il padre di queste idee è il francese Saint-Simon (1760-1825): teorico del governo dei tecnici. Animato da una profonda sfiducia nel “dominio della folla”, era convinto che il compito di dirigere la società spettasse, di diritto, alle élite economiche e finanziarie e, fra queste, ai banchieri.
In nome e per conto delle “folle solitarie” doveva parlare l’esperto, che non ha bisogno di essere eletto dalle “moltitudini ignoranti”, ma si seleziona da sé con l’evidenza della sua superiore capacità. Poiché, infine, la società non va “governata” ma “amministrata”, il compito del tecnico consiste nel superare l’ antagonismo fra capitalisti e lavoratori “favorendone la collaborazione al fine di raggiungere la massima espansione della produttività sociale”.
Nel momento in cui i problemi vengono trasfigurati da politici in amministrativi, si capovolge la tradizionale gerarchia del primato dei fini sui mezzi, della politica sulla tecnica, e si impone quella dell’adattamento passivo della prima alla seconda: da quel momento i tecnici prendono il posto dei politici.
Attraverso il governo dei tecnici, in sostanza, si punta a restringere le basi democratiche di un paese, perché si mettono sullo stesso piano gli interessi dei forti e i bisogni dei deboli; si rinuncia alla selezione democratica delle classi dirigenti; si punta sull’efficienza e si trascura l’equità ed, infine, perché nella società si diffonde un silenzio assordante in attesa che “il moderno Teseo” entri nel Palazzo del mostro e, attraverso il suo sapere, risolva tutti i problemi.
Oggi, dopo l’ orchestrata discesa in campo di Draghi per evitare che i soldi del Recovery plan fossero gestiti dalle forze di sinistra, e in attesa di conoscere le scelte politiche che compirà, è bene non dimenticare la lezione dell’economista Paul Samuelson. Questi, infatti, intervenendo nella discussione sempre aperta sul ruolo che debbono svolgere i politici ed i tecnici, ammoniva: “L’economista A può sostenere ad oltranza la piena occupazione. L’economista B può non classificarla di primaria importanza. Questioni basilari concernenti fini giusti e sbagliati da conseguire, non possono essere risolti dalla scienza come tali. Esse appartengono al campo dell’etica e ai giudizi di valore. Ogni cittadino deve decidere alla fine tale problema. Ciò che può fare un esperto è di porre alternative possibili e i veri costi da sopportare nelle diverse soluzioni".