A proposito di ipocrisia (di Michele Graduata)

Tutto comincia il 27 novembre 1947 quando i rappresentanti di 56 dei paesi membri delle Nazioni Unite si riunirono a Flushing Meadow,

un sobborgo vicino New York, con all’o.d.g. la spartizione della Palestina in due stati distinti.. Per l’approvazione della proposta erano necessari due terzi dei voti.

Durante la discussione, dopo un breve conteggio, il ministro degli Affari esteri dell’Agenzia ebraica si accorse che mancava la maggioranza richiesta. Haiti aveva annunciato il voto contrario, la Grecia era orientata per l’astensione, mentre l’ambasciatore del Paraguay non aveva ancora ricevuto istruzioni dal suo governo. Per guadagnare tempo fu decisa una manovra ostruzionistica che costrinse il presidente dell’Assemblea dell’Onu, il brasiliano Oswaldo Aranha favorevole alla spartizione, a rinviare la seduta. Il tempo intercorso fu utilizzato per costruire il consenso necessario attraverso promesse, ricatti e minacce.

Sabato 29 novembre 1947 il presidente dell’Assemblea tirò a sorte il nome del paese che avrebbe dovuto votare per primo: fu estratto il Guatemala. Con 33 voti a favore ( Australia, Belgio, Bolivia, Brasile, Bielorussia, Canada, Costa Rica, Cecoslovacchia, Danimarca, Repubblica Dominicana, Ecuador, Francia, Filippine, Guatemala, Haiti, Islanda, Liberia, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Nicaragua, Norvegia, Panama, Paraguay, Perù, Polonia, Svezia, Ucraina, Sud Africa, Urss, Usa, Uruguay, Venezuela), 13 contrari ( Afghanistan, Cuba, Egitto, Grecia, India, Iran, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita, Siria, Turchia, Yemen) e 10 astenuti ( Argentina, Cile, Cina, Colombia, El Salvador, Etiopia, Gran Bretagna, Honuras, Messico e Iugoslavia) l’Onu votò la spartizione della Palestina. Lo stesso giorno fu approvata la risoluzione n. 181 che insiste su tre precise indicazioni: la costituzione di due stati indipendenti, la collaborazione economica e il regime internazionale della città di Gerusalemme.

In spregio a quanto previsto dal diritto internazionale, tra il 1947 e la fine del 1948, gli ebrei, al fine di espandere il territorio che era stato loro assegnato, attraverso atti terroristici dettero vita a non meno di ottanta massacri, il più famoso dei quali è quello di Deir Yassin, un villaggio usato come base per attaccare Gerusalemme ovest.

I palestinesi, dal canto loro, lessero come un atto di sopraffazione la spartizione di oltre il 60% del loro territorio a un terzo della popolazione complessiva, all’interno di uno stato dove i palestinesi rappresentavano il 45% della popolazione. In un primo momento, sopraffatti dalla paura e dal terrore, si dettero alla fuga e l’esodo era motivato dall’illusione di poter ritornare nei loro villaggi e nelle loro abitazioni, dopo la fine delle operazioni militari. Appena presero coscienza della situazione, misero nel conto l’uso della forza: da quel momento intere generazioni vengono bollate come terroristi.

Il terrorismo è un principio moralmente inaccettabile, perché si nutre di una miscela di disperazione e determinazione e allo stesso tempo è un principio politicamente controproducente, perché scatena il controterrorismo. Eppure la Risoluzione Onu n. 42/159 del 1987, che lo condanna, è stata approvata con 153 si ed il voto contrario di Stati Uniti e Israele.

Da 73 anni ormai, dopo innumerevoli incontri di pace e una distribuzione infinita di premi Nobel, soltanto agli israeliani è stato assicurato quel diritto ad avere uno Stato che, invece, viene negato ai palestinesi.

In una situazione del genere nessuno può pretendere la sicurezza calpestando i diritti degli altri. Quando si pensa di perseguirla puntando tutto sulla propria forza e sulla debolezza altrui, allora si possono vincere tutte le battaglie, mai quella di impedire al più debole di ribellarsi. E poiché non esiste una misura per stabilire il grado di ribellione consentito, spesso si ricorre anche a forme primitive che provocano moltissimi martiri e pochissimi risultati concreti.

In questi giorni basta leggere i commenti e le dichiarazioni di capi di stato e di governo,  di leader politici, analisti e semplici cittadini sul conflitto in corso fra israeliani e palestinesi per accorgersi che tutti vogliono la pace e auspicano la pace.

Ma un conto è volerla e auspicarla ed un altro è costruirla giorno per giorno. Ed è proprio durante questo percorso quotidiano che si incontrano strani compagni di viaggio i quali sono convinti che la pace possa essere costruita sulla base dei rapporti di forza e imposta attraverso la politica dei fatti compiuti.

La costruzione della pace come metodo e non solo come auspicio si realizza solo nel momento in cui l’ Altro, il diverso da noi, non viene demonizzato come terrorista, ma riconosciuto come persona con uguali diritti e dignità.

A chi infine si ostina, ancora oggi, “a considerare i razzi di Hamas come azioni terroristiche e quelli di Israele come atti difensivi” giova ricordare il giudizio politico fornito, fin dall’inizio, da Ben Gurion sul ruolo di aggressore e di aggredito: “Quando affermiamo che gli arabi sono gli aggressori e noi ci difendiamo, non è vero che a metà. In termini di sicurezza e di vita quotidiana, certo, ci difendiamo (…..) Ma questa lotta non rappresenta che un aspetto del conflitto, che è in sostanza di ordine politico. Ora, in termini politici, noi siamo gli aggressori e loro si difendono”.

Michele Graduata

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