Le nuove generazioni e la politica (di Michele Graduata)
L’incerta deriva democratica del nostro paese e l’ancor più incerto destino politico della sinistra mi spingono ad intervenire nel dibattito
che si va sviluppando fra le forze politiche a commento delle ultime consultazioni amministrative.
I numeri parlano chiaro. Con il 58,62 % dei voti, un inedito cartello elettorale si è aggiudicato il diritto-dovere di amministrare questo Comune per i prossimi anni. Il suo compito è quello di misurarsi con il governo di una democrazia difficile, peraltro presente a tutti i livelli, e resa, oggi, ancora più difficile a causa del progressivo e inarrestabile impoverimento della partecipazione alla vita democratica, della sfiducia e del discredito verso i partiti e la politica e della riproposizione, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, di una nuova questione sociale.
Quando, secondo i dati Demos 2014, meno del 30% dei cittadini italiani hanno fiducia nelle amministrazioni comunali, soltanto il 2% nella politica e più del 50% è convinto che si possa governare direttamente senza alcuna mediazione, mentre il 15% delle famiglie vive nella fascia di povertà relativa e il 7,5 in quella assoluta, dobbiamo tutti prendere atto che, politicamente, siamo ormai in presenza di un paese senza Stato, una sorta di nuovo Far West senza autorità riconosciute e senza regole condivise.
Questa è la sfida con la quale devono misurarsi tutti coloro che si appassionano alla vita politica. Dopo anni di malgoverno del centro-destra che hanno consentito al 10% della popolazione italiana di controllare il 50% della ricchezza nazionale, mentre la disoccupazione giovanile è salita al 39,5% con picchi al Sud del 51%, e di gravi errori e inconcludenti peregrinazioni del centro-sinistra, che hanno costretto le classi più deboli a subire le scelte compiute da quelle più forti, siamo ad un punto di svolta che necessita di un pensiero politico capace di dare fiducia e speranza, soprattutto alle nuove generazioni, e all’intero Paese che è confuso, deluso, indignato ed è gravato, per la prima volta dopo anni di relativo benessere, da problemi economici, spesso anche elementari.
E’ in grado, oggi, questa politica e questo Pd di misurarsi con problemi così drammatici e di dare risposte credibili? Se siamo onesti con noi stessi dobbiamo prendere atto che la politica è oggi debolissima, malata da tempo, perché in parte è stata messa a tacere dalla potenza acquisita dall’ economia ed in parte perché si è screditata per le pratiche corruttive, troppo spesso vergognose, che l’hanno vista protagonista. Il Pd, dal canto suo, in assenza di un progetto della sinistra europea alternativo a questa economia che uccide, come denuncia ogni giorno Papa Francesco, e lacerato al suo interno da continue divisioni, ha da tempo perso l’anima e appena è stato chiamato a responsabilità di governo nazionale si è illuso di poter risolvere i problemi del paese praticando un riformismo debole, calato dall’alto, che l’ha progressivamente allontanato dal suo popolo, un riformismo senza passione perché non accompagnato da alcun progetto per il futuro e nessun ideale da realizzare.
Questa debolezza della politica e questo smarrimento nell’agire politico della sinistra europea e del Pd hanno consentito il coagularsi di un blocco sociale che, sventolando le bandiere dell’antipolitica e del populismo, si candida in tanti paesi dell’Europa a praticare il riformismo dei potenti, dove il cittadino è retrocesso da protagonista a suddito. Come e perché siamo giunti a questo punto? Come e perché è stato possibile un passaggio così repentino dal Rinascimento alla Controriforma? C’è materia di riflessione per tutti!
Il populismo è un fenomeno largamente conosciuto, fin dal secolo scorso, soprattutto nei paesi latino-americani, a differenza dell’Europa dove prevalse il fascismo ed il nazismo e si afferma in presenza di una debolezza della democrazia. Si tratta di una scorciatoia che, in alcuni casi, si risolve in un momentaneo gioco infantile con la democrazia, in altri in un serio pericolo per la stessa. L’esperienza storica dimostra che il populismo si sconfigge soltanto se lo si combatte, a viso aperto, sul piano culturale e politico, nelle istituzioni e nel paese.
Oggi, in presenza della più grave crisi economica, politica, sociale e morale, dopo quella del 1929, c’è veramente qualcuno in buona fede che pensa di poterla affrontare attraverso inedite scorciatoie elettorali e sostituendo qualche vecchio dirigente con qualcuno nuovo? Si pensa veramente che, attraverso questi mezzucci, si possa impedire a potentissime oligarchie economiche nazionali ed internazionali di dirigere stabilmente i destini del mondo come insegna la vicenda greca?
Se è questo lo stato dell’arte, lo scenario che sta davanti a noi, come giudicare allora, sul piano politico, la vittoria elettorale a Mesagne di un inedito cartello elettorale? Per rispondere a questa domanda bisogna, da un lato, guardare al blocco sociale che lo ha sorretto e, dall’altro, alla cultura politica che lo ha sostenuto. Un coagulo di voti clientelari, di sottogoverno e di consorterie organizzate, sorretti dalla propaganda del nuovismo, ha consentito a pagine, alcune ingiallite altre a dire il vero poco onorevoli, dello stesso romanzo che oggi si giudica criminale e ieri si è contribuito a scrivere in prima persona, di strappare una vittoria elettorale.
Una vittoria elettorale appunto che, tecnicamente, sul piano politico, va annoverata nel filone dell’imperante populismo per i tratti peculiari che la contraddistinguono. Si tratta, infatti, di una vittoria costruita in nome del popolo e contro i partiti, sulla base di una forte polarizzazione fra il vecchio e il nuovo, con un linguaggio che si è abbassato a quello del popolo invece di elevarlo al proprio e su un verticalismo organizzativo imperniato su un ristretto gruppo di potere che, oggi, si candida a costruire un paese normale con un’alleanza anormale; che vuole pacificare il paese dopo aver diviso il centrosinistra e il centrodestra; che vuole fare uscire il paese dalla crisi facendo con una parte della destra quello che non è riuscito a fare con tutta la sinistra e che ha inserito nella nuova sceneggiatura una pagina bianca, un politico in boccio, le cui uniche qualità riconosciute, al momento, sono soltanto quelle della devozione filiale. Sfortunato quel paese che si affida al fattore c…. del suo sindaco e alle capacità manovriere dei suoi rappresentanti istituzionali: se è questo l’orizzonte politico, non è escluso che, prima o poi, finiremo in un vicolo cieco.
Per quanto riguarda, poi, il tema del rapporto fra vecchi e giovani in politica, è largamente riconosciuto che si tratta di un tema antichissimo che, ciclicamente, ritorna di attualità soprattutto nei momenti di crisi. Si tratta di una operazione politica che tende a delegittimare il passato per legittimare il presente dei vincitori di turno e che Gramsci ha bollato con queste parole: “Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne la grandezza e il significato necessario non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. E’ il solito rapporto fra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi”. E continuava: “Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le da la sicurezza di andare più oltre”. La lezione gramsciana fu fatta propria da una parte del movimento operaio italiano che, nel corso del 900, costruì il suo partito politico selezionando le classi dirigenti sulla base del principio: rinnovamento nella continuità.
Dopo che, per anni a sinistra si sono dedicate le migliori energie a riorganizzare un nuovo inizio, dopo che si è inaugurata una nuova stagione di destrutturazione del suo patrimonio culturale e di disgregazione della politica organizzata, dopo anni duranti i quali, in un silenzio assordante, autorevoli dirigenti nazionali hanno teorizzato : “che la sinistra è un male e solo la presenza della destra rende questo male sopportabile”, perché meravigliarsi allora se oggi, all’interno dello stesso partito vi è qualcuno che punta ad asfaltarla, a rottamarla definitivamente?
Oggi, con l’avvento alla direzione del Partito democratico di una nuova classe dirigente, siamo in presenza di una nuova stagione di difficile convivenza fra il vecchio e il nuovo. Sembra avverarsi la profezia di Gramsci il quale ammoniva: “che tocca ad ogni generazione essere giudicata con lo stesso giudizio che essa ha dato di quella precedente”.
Il partito politico è una comunità di uomini liberi che non tollera a lungo la presenza di padroni e padrini, ma nello stesso tempo non sopporta neanche quella di inquisitori e gladiatori. Il passato è memoria, tradizione e merita rispetto. Se si vive nella sua continua venerazione si provoca, prima, indignazione e, poi, ripulsa e il partito corre il rischio di trasformarsi in una setta di sopravvissuti. Nello stesso tempo, quando tentano di prendere il sopravvento coloro che cercano di costruire le proprie fortune politiche, dedicando continue energie nel denigrare la storia degli altri per legittimare la propria, il partito corre il rischio di trasformarsi in un club di improvvisatori. E’ inutile girare intorno, altro che vecchi e giovani: il vero scontro oggi all’interno del Pd è fra due diverse strategie politiche e due diverse concezioni del partito. Vi è chi punta a costruire un partito di centro che guarda a Destra e chi, invece, pensa che l’Italia abbia bisogno di un partito di centrosinistra che guarda a sinistra. C’è chi pensa ad un partito organizzato, radicato sul territorio e diretto da un gruppo dirigente selezionato in base al merito e capace di portare a sintesi le diverse sensibilità. C’è chi punta a costruire un partito personale, con un uomo solo al comando, circondato da una corte selezionata in base alla fedeltà e alla servitù volontaria e popolato, in periferia, da tanti cloni replicanti che, pur assumendo atteggiamenti gladiatori, basta sentirli parlare per accorgersi che si è in presenza di nani della politica spesso sopravvalutati.
Si tratta di uno scontro dall’esito ancora incerto e destinato a durare nel tempo. Tocca soprattutto alle nuove generazioni decidere se vale la pena battersi o meno a favore della democrazia e per la costruzione di un partito di centrosinistra umano: si tratta di una risposta non scontata tenuto conto che, nel secolo scorso, a Weimar, la stragrande maggioranza dei giovani disse No!
Michele Graduata