In ricordo di Samuele De Guido (1917-1975) di Michele Graduata.
Credo che il modo migliore per ricordare l’opera e la figura di Samuele De Guido, a quarant’anni dalla sua morte sia,
da un lato, quello di un comune ripensamento sugli anni Settanta del secolo scorso che lo videro autorevole protagonista della Democrazia Cristiana in provincia di Brindisi e, dall’altro, quello di scavare nella sua storia umana e civile per tracciarne l’ identità con animo sereno e sgombro da preconcetti.
Dopo gli anni Cinquanta, durante i quali il mondo del lavoro era stato costretto a condurre lotte difensive, negli anni Sessanta iniziò una stagione magica di lotte politiche, sociali e civili che provocarono profondi mutamenti nell’economia, nella politica, nella società, nella cultura e nella stessa Chiesa cattolica. Sono gli anni durante i quali, attraverso una forte spinta dal basso, furono conquistati diritti e, per la prima volta in Italia, si modificarono i rapporti di forza fra il Capitale e il Lavoro.
Questo accresciuto potere del mondo del lavoro nelle fabbriche e nella società spaventò le classi dominanti più conservatrici che si organizzarono per una controffensiva. Il 12 dicembre 1969 la destra inaugurò a Milano la strategia della tensione con l’esplosione di una bomba alla Banca dell’Agricoltura e, nel 1971, guidò le rivolte municipalistiche a Reggio Calabria, all’ Aquila e a Pescara. Sul piano politico, questa strategia raccolse i suoi frutti alle elezioni amministrative del 1972.
In presenza del manifesto fallimento del centro-sinistra, inteso come operazione fondata sulla sperimentazione di una politica riformistica capace di risolvere i problemi del paese isolando il Pci, e del pericolo rappresentato dalle destre, il dibattito politico si concentrò essenzialmente su due temi: da un lato, la necessità di un allargamento della base democratica dello Stato e, dall’altro, quello della riforma dei partiti. Per rispondere a queste esigenze, la Dc di Moro propose la strategia dell’attenzione, il Psi di De Martino equilibri più avanzati, ed il Pci di Berlinguer il compromesso storico.
Anche nella nostra provincia si sviluppò un appassionato dibattito e, nel giro di pochissimi giorni, il tema della strategia dell’attenzione di Moro fu al centro di tre importanti iniziative. Il I maggio 1969 si svolse a Fasano un convegno della corrente di Base sul tema “I partiti e le forze politiche nella realtà italiana”. Si confrontarono Giovanni Marcora, Giovanni Gallone e Giuseppe Zurlo per denunciare unanimemente, da un lato, l’ormai intollerabile distacco fra il partito e l’elettorato democristiano e, dall’altro, “per auspicare l’apertura al Pci e l’avvio di una politica riformistica”. L’eco che ebbe l’iniziativa spinse il segretario nazionale Flaminio Piccoli a venire a Brindisi, il 31 maggio dello stesso anno, per ribadire “l’indisponibilità della Dc ad un incontro col Pci”.
Il 2 giugno toccò all’on. Moro spiegare in due comizi tenuti a Latiano e Francavilla il senso della strategia dell’attenzione con queste argomentazioni: “Si tratta di coagulare, attraverso una sintesi politica, i motivi di travaglio e d’incentivazione serpeggianti nella vita nazionale il che non equivale ad un cedimento al Pci, ma a riconoscere obiettivamente, nel gioco democratico e parlamentare, la vera funzione delle opposizioni e di saper accettare, respingere e giudicare le intuizioni e le richieste che esse esprimono”.
Di pari passo al dibattito sul tema dell’allargamento della base democratica, si sviluppò anche quello della riforma del sistema politico italiano. Nel corso degli anni Settanta, infatti, il contemporaneo scatenarsi di una gravissima crisi economica e di una incontenibile protesta sociale, avevano messo in crisi non solo il partito-stato democristiano, ma l’intero sistema politico incentrato sulla democrazia dei partiti. Le analisi di quegli anni denunciavano con forza quanto fosse drammatica la situazione. Nella Dc si argomentava: “I partiti appaiono chiusi in un associazionismo senza significato, sordi per lo più a quel che avviene nella realtà, divisi al loro interno in gruppi di potere”. Il Pci, dal canto suo, così si esprimeva: “I partiti appaiono macchine di potere e di clientele; idee, ideali, programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile zero”.
Queste analisi preoccupate di carattere generale non solo trovavano conferma nella nostra provincia, ma alcuni aspetti negativi apparivano addirittura più accentuati. In un documento della Dc brindisina si denunciava, infatti, di essere ormai in presenza di una provincia ingovernabile per la crisi nella quale si dibattevano quasi tutte le amministrazioni locali, compreso il comune di Ostuni dove la Dc aveva 22 consiglieri su 40 ed il comune di Fasano dove la Dc aveva il 50% dei consiglieri.
Nella stessa analisi, dopo aver denunciato la diffusione di egoismi particolari e personali dovuti alla trasformazione della Dc da partito-stato a partito delle tessere, si auspicava la costruzione di un partito politico:“capace di un collegamento permanente con la società, di elaborare linee politiche, di mantenere un rapporto dialettico con le altre forze politiche e non mettersi in una posizione di isolamento”.
Un ricco e articolato dibattito sulla necessità di una autoriforma dei partiti, che coinvolse tutte le forze politiche, si concluse con un accordo programmatico nel quale si auspicava:“l’esigenza di un nuovo corso istituzionale degli enti locali che richiede un aperto e democratico confronto di tutte le forze politiche laiche, marxiste e di ispirazione cristiana che si richiamano alla comune esperienza della Resistenza al fascismo e ai valori della Costituzione repubblicana”. Lo spirito di quel documento, pur approvato all’unanimità dalla Dc e dal Pci e con 14 voti a favore e 9 contrari da parte della sinistra del Psi, fu osteggiato fin dall’inizio all’interno di diversi partiti.
In un contesto di aspro scontro politico, ma caratterizzato anche da profondo rispetto delle diverse posizioni politiche e da una naturale assunzione di responsabilità verso il bene comune, giovanissimo segretario provinciale del Pci ho conosciuto l’avv. De Guido nelle vesti di segretario provinciale della DC. Nel corso dei ripetuti incontri che ho avuto con lui, ho maturato alcune convinzioni che non ho mutato nel corso del tempo. Sul piano umano colpivano la naturale semplicità e cordialità che non scadevano mai in debolezza nella difesa delle proprie convinzioni. I tratti, che a me sembrano peculiari della sua personalità, possono essere riassunti in un intreccio inscindibile di fervente cattolico, appassionato antifascista, tenace democristiano e competente amministratore.
Sul piano politico, la Democrazia Cristiana della nostra provincia ha camminato per decenni sulle gambe di uomini come De Guido. Dopo aver partecipato alla Resistenza contro il fascismo, il giovane avvocato fu gettato dalla Storia nelle braccia della politica e, sotto le bandiere di questo partito, ricoprì prestigiosi incarichi in vari Enti. Pur caratterizzandosi come un uomo di potere, lo utilizzava non solo per conquistare consenso al suo partito, ma anche come strumento per risolvere i problemi generali del paese e per moderare gli egoismi individuali. Curioso, attento e interessato a leggere e governare le novità sociali, si trovò a dover operare all’interno di un partito democristiano che, in provincia di Brindisi, era dominato da posizioni moderate, fra le quali spiccava in modo egemone la corrente Primavera che, prima, ostacolò il passaggio dal centrismo al centro-sinistra e, poi, si distinse come strenua sostenitrice della conventio ad escludendum verso i comunisti. Animato da una profonda passione civile a da una accentuata solidarietà umana e, pur non essendo ossessionato dal proprio destino politico, fu osteggiato da tanti acerrimi nemici anche all’interno del suo stesso partito, sebbene, come insegna Freud, “questa ostilità non fosse mai confessata, ma sempre dissimulata sotto l’apparenza del cerimoniale”.
Ho ancora impressa nella memoria la discussione aspra che si svolgeva all’interno del Consiglio provinciale convocato per approvare il documento programmatico che puntava all’autoriforma dei partiti. Mentre diversi interventi di esponenti della Dc si attardavano nel sottolineare i distinguo, e nell’innalzare muri di incomprensione, De Guido mi chiamò in disparte e mi propose di chiudere subito la discussione, temendo una bocciatura del documento da parte del suo stesso gruppo democristiano.
Pur avendo intravisto i pericoli che correva la democrazia dei partiti, la prematura morte non ha consentito all’avv. De Guido di assistere alla sua trasformazione in una democrazia populistica, che esclude qualsiasi forma di mediazione, ed è legittimata dall’affermazione della nuova cultura del nuovismo che, invece di rielaborare e reinterpretare il proprio passato alla luce delle novità intervenute, invece del gusto per la “mutazione”, per “l’innovazione”, “per tentare cose nuove”, come insegna Machiavelli, si fonda banalmente sulla sua rottamazione.
Dopo la fine della democrazia dei partiti siamo, oggi, in presenza di un paese smarrito dove si sono ripresentati tutti i nodi storici della società italiana ai quali avevano dedicato la loro vita uomini come De Guido. Si è fatto più drammatico il divario fra il Nord e il Sud, si è accentuata la debolezza dello Stato italiano insidiato all’esterno dalle grandi multinazionali e all’interno dalle varie consorterie e mafie, si è lacerata ulteriormente la già debole solidarietà umana e si è abbassato il livello etico e morale della vita politica.
La malattia che ha investito la società italiana è ormai troppo profonda e nessuno può illudersi che da essa si possa guarire da un giorno all’altro. Dopo una stagione di mercatizzazione della società durante la quale il mercato, liberatosi da qualsiasi forma di condizionamento, ha prodotto una redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto, c’è bisogno di una sua ripoliticizzazione nella quale la politica si assuma il compito di imbrigliare la forza del mercato. Le nuove generazioni che intendono misurarsi con la sfida di questa grande trasformazione possono attingere alle due lezioni, una politica e l’altra di vita, che ci ha lasciato in eredità l’avv. Samuele De Guido. La lezione politica consiste nella profonda convinzione che, quando entrano in crisi i partiti politici, se invece di puntare ad una loro autoriforma si pensa di sostituirli con oligarchie, corti, cerchi magici, partiti personali e cricche affaristiche, prima dilaga il populismo e poi si affermano governi autoritari. La sua lezione di vita consiste, da un lato, nella capacità di saper coniugare la difesa strenua dei propri principi e dei propri convincimenti, aprendosi e misurandosi con quelli degli altri e, dall’altro, quella di un uomo mite, prudente, servitore degli interessi generali del paese che, pur avendo gestito enorme potere, è rimasto profondamente onesto.
Michele Graduata
Mesagne, li 10 Dicembre 2015
nella foto: Samuele De Guido con ò'on. Aldo Moro a Bari il 2 giugno 1968