Verso quale Italia e quale Europa? Fortunato Sconosciuto*

Manifesto 4 ottobre: Fortunato Sconosciuto, con il Movimento ASinistra, fa una lettura storica e politica dell'attuale momento che attraversano l'Europa e al suo interno l'Italia.

 

 

L’Europa ha ancora un senso?

La “Repubblica” del 2 agosto 2018 ha pubblicato un appello a firma di Massimo Cacciari e altri intellettuali che, a partire dalla consapevolezza di una Europa “sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia  sta dando un pesante contributo”, e alla denuncia del “pericolo mortale … di una deriva sovranista, in parte risultato delle politiche europee fin qui condotte”, auspica una “iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici” e rammenta che “la responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere”.

Sullo stesso giornale qualche settimana prima, il 18 luglio, Lucio Caracciolo, Direttore di “Limes”, aveva perentoriamente affermato che “l’Europa è stata, è, sarà per il tempo prevedibile un’espressione geografica. Peraltro, imprecisata, almeno nei suoi confini orientali … Di sicuro l’Europa non è un soggetto geopolitico. Altrettanto certamente l’Unione Europea non è l’Europa, ma una istituzione … oggi in profonda crisi di identità e di legittimazione”.

Ora da una parte non sembra, ancora ai nostri giorni, che sia stata promossa una discussione coinvolgente e diffusa né dai movimenti e partiti politici tradizionali né dai sindacati, né da centri di ricerca e Associazioni con le loro articolazioni presenti nel Paese, dall’altra sembra sempre più spento l’interesse e comunque poco o nulla alimentato dai luoghi istituzionali e sociali, per la maturazione di una nuova consapevolezza dei fattori storici e geografici che stanno dentro la vicenda degli Stati dell’Europa moderna.

Due Europe distinte

Il fatto è che questa Europa è stata il luogo, nei secoli della modernità, di contraddizioni laceranti e terribili: i suoi Stati nascenti hanno avviato il processo di colonizzazione di popoli e culture, dall’Africa alle Americhe all’Asia, con la violenza, la rapina e l’inganno, cancellando popolazioni e civiltà, schiavizzando uomini e donne e imponendo monopoli e rotte commerciali, diventando così quasi modelli per quelli che di lì a poco si sarebbero costituiti.

La loro parabola politica si configura come una progressiva istituzionalizzazione del sovranismo assoluto degli Stati, fondandolo dapprima sulle ragioni delle dinastie regnanti e del loro equilibrio dinamico a difesa della pace, soprattutto dopo le terribili guerre di religione che avevano devastato gran parte delle popolazioni europee, e di un ordine sociale del quale dovevano nello stesso tempo garantire e controllare privilegi e miserie di nascita, giustificandolo in seguito davanti all’erosione dei suoi fondamenti da parte della cultura illuministica, liberale, democratico-socialista, cattolico-liberale e cattolico-democratica, con il nazionalismo, il dominio delle civiltà superiori e la difesa dell’ordine costituito, fino all’aberrazione del fondamento identitario razziale-  razzista nella Germania nazista prima, dell’Italia fascista poi.

Nello stesso tempo questa Europa avviava e sviluppava la grande avventura dell’umanesimo, che dalle Corti e dai Circoli letterari e filosofici si diffondeva lentamente fino a farsi movimento ampio che, per rendere effettiva la dichiarazione di principio della “dignità della persona umana”, attraverso il riconoscimento e l’esercizio dei suoi diritti, civili, politici e sociali, dava vita a rivoluzioni (a partire dalla cesura della Rivoluzione francese) e rivolte e a quel profondo, radicale cambiamento che, presentandosi come una sfida sempre nuova, consiste nel passaggio da sudditi a cittadini, dal sovranismo assoluto dello Stato allo Stato democratico di diritto.

Queste due “europe” non solo hanno convissuto, ma entrambe al loro interno si sono profondamente differenziate in un processo secolare che ha coinvolto società, nazioni e stati con riferimento alle trasformazioni economiche, alle elaborazioni culturali, agli assetti giuridici, istituzionali e amministrativi, tanto da determinare una sorta di “specificità europea”.

E quando nella prima metà del‘900 gli Stati imperialisti europei, certo con responsabilità diversificate nelle scelte che le preparano e nelle decisioni politiche che poi assumono, utilizzano la follia disumana delle due guerre mondiali per risolvere la corsa alla primazia imperiale, si ritrovano con un esito per il quale gli stessi vincitori devono consegnarla a nuovi Stati non europei.

Sulle ceneri delle atrocità e delle distruzioni consumate nel trentennio feroce ( 1914-1945) Governi, forze politiche e gruppi dirigenti di Paesi dell’Europa occidentale, sostenuti dagli USA, si orientano  a chiudere definitivamente con la cosiddetta  Europa di Wesfalia, (quella che si consolida e si sviluppa con la famosa pace del 1648) per aprire una pagina completamente nuova, quella della collaborazione tra quegli stessi Stati che avevano mandato al massacro i loro cittadini, sulla base di orientamenti politico-culturali democratici e un corrispondente rinnovamento delle Istituzioni.

L’Europa dei Trattati

Si apre così una stagione di confronti, di ottimistiche attese, di primi tentativi di dar vita a organismi comunitari, e se ne sperimentano subito le difficoltà.

A partire comunque dal 1957 (con quelli di Roma) nasce l’Europa dei Trattati, costruita su accordi tra Stati, che conosce una accelerazione con quello di Maastricht con il quale nasce  l’UE, (entrato in vigore a novembre del ’93), conosce una integrazione successiva con quello di Amsterdam (entrato in vigore a maggio del ’99), e ha un momento ad oggi conclusivo con quello di Lisbona (entrato in vigore a dicembre 2009), mentre nei primi anni 2000 fallisce il tentativo di approvare una costituzione europea.

Ora, alla fine di più di un sessantennio dai primi Trattati, mentre si avvicinano le nuove elezioni in un clima di sfiducia e anche di una certa ostilità nei confronti delle istituzioni europee, si può individuare in estrema sintesi, con ogni cautela possibile, la linea di un tracciato che, pur con alcuni ondeggiamenti, ha segnato questa vicenda?

A partire dal dato, rilevante e problematico, che l’Europa dei Trattati è partita con un accordo tra sei Stati ed è arrivata ai ventisette attuali, incrociando la fine dell’URSS e del Patto di Varsavia, l’unificazione tedesca e la nascita di nuovi Stati a base prevalentemente etnico-nazionale, è perlomeno possibile cogliere due elementi della sua parabola.

Il primo è stato determinato dalle notevoli difficoltà subito incontrate nel tentativo di dare prospettive di unificazione politica nel segno della sovranità popolare e di Istituzioni che lo rappresentassero con un solido fondamento costituzionale, per  cui gli Stati hanno ripiegato verso decisioni e progetti (a breve-medio termine) di unificazione economica; e il corollario della libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e degli uomini- auspicavano- avrebbe finalmente garantito stabili condizioni di pace.

Il secondo elemento è legato al disegno di tale integrazione economica, progettata perché potesse realizzarsi all’insegna di un equilibrio tra le ragioni della “concorrenza” e quelle della “convergenza”.

Con l’introduzione dell’euro (e la conseguente costituzione dell’Eurogruppo) e con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona le ragioni della concorrenza hanno preso il  sopravvento e dominano incontrastate, in un contesto internazionale in cui i principi dell’ordoliberismo hanno condotto le danze di una globalizzazione che ha determinato una concentrazione senza precedenti in poche mani di una ricchezza anch’essa senza precedenti, condannando alla miseria, alla morte civile e alla fame la maggioranza dell’umanità. E si tratta di una corsa alla concentrazione che in questi ultimi anni va assumendo l’aspetto di un conflitto economico e politico tra le grandi potenze che usano tutti gli strumenti, anche quelli estranei alla logica del libero mercato, per difendere un dominio di fatto al suo interno, secondo la regola tragica dello scambio ineguale imposto.

“Costituzionalizzare” l’ordoliberismo

“Tutto il potere ai banchieri e agli istituti finanziari!”  Sembra essere l’unico orizzonte possibile presentato dal “manifesto” del nostro tempo. E si tratta veramente di “tutto il potere”, perché banchieri e società finanziarie non sono solo i creatori del denaro, dei fondi, dei titoli derivati e tossici, in un gioco a scommettere sul futuro e così rubandolo a chi vuole sporgersi verso di esso e accarezzarlo;  sono anche coloro che, attraverso i mezzi messi a disposizione dalla rivoluzione informatica, hanno la possibilità di operare una profonda e pericolosa ristrutturazione cognitiva di un numero sempre maggiore di donne e uomini, orientandone la percezione, definendone i perimetri conoscitivi, pilotandone gli orientamenti e le scelte:  insomma costruendo una nuova ragione del mondo che va assorbita e considerata l’unica possibile.

In tale contesto le Istituzioni europee hanno alla fine posto ai margini le ragioni della coesione economica e sociale per “costituzionalizzare” invece le regole non negoziabili dell’ordoliberismo: stabilità monetaria, pareggio di bilancio, concorrenza assoluta, affidando di fatto il ruolo fondamentale nella difesa dell’Europa che conta alla Commissione Europea ( CE) e alla Banca Centrale Europea,( BCE) la quale non può prestare il denaro ai Governi, ma alla banche private, e a sua discrezione. Una BCE che costituisce un caso anomalo: istituita con lo scopo di difendere il valore della moneta e la stabilità dei prezzi è l’unica Banca centrale completamente autonoma dal potere politico. Si tratta comunque di regole d’oro e di parametri stabiliti dai Trattati su deficit e debito che favoriscono e difendono la superiorità degli Stati più ricchi.

Alcune conseguenze negative per gli strati operai e per i ceti più poveri  sono stati avvertiti, anche se in misura molto diversa, un po’ ovunque: se al primo posto c’è il valore dell’euro quello del lavoro viene progressivamente retrocesso, se al primo posto c’è il pareggio di bilancio l’esercizio dei diritti sociali viene prevedibilmente  differito in tempi migliori, se al primo posto c’è la concorrenza assoluta viene salvaguardata solo la cittadinanza dei consumatori rimasti in piedi sul mercato.

E mentre all’interno di questo processo di integrazione economica si manifestavano insofferenze e rifiuti da parte di vari strati sociali, soprattutto di quelli più poveri e dei Paesi euro del sud, è arrivata la grande crisi del 2007-2008, causata dai potenti che dominano il mercato, non dalle rivolte di chi non ha lavoro né beni e servizi indispensabili a disposizione.

E così a ulteriore e più rigida difesa delle regole d’oro, e giustificati dall’esigenza di “salvaguardia degli Stati dai disavanzi eccessivi” (art. 126 del Trattato di Lisbona) le Istituzioni europee negli anni successivi approvano una seria di misure che di fatto continuano ancora di più a sottrarre sovranità ai singoli stati, in modo particolare a quelli della zona euro. Può essere utile ricordare alcuni passaggi più importanti.

La sovranità sottratta

Si parte con il “Patto euro plus” (25-03-2011) il cui testo prevede che gli Stati che lo sottoscrivono si impegnano a realizzare obiettivi economico-sociali e di bilancio secondo indicazioni e richieste tali da incidere nella riduzione dei salari, nell’aumento della flessibilità del lavoro, nella riduzione dei servizi socio-assistenziali e delle pensioni.

Si procede con due “pacchetti di Regolamenti e direttiva” denominati “Six pack” e Two pack”, il primo approvato dalla CE nel novembre 2011, il secondo presentato negli stessi giorni e approvato nel maggio del 2013: si tratta di Regolamenti che prevedono sanzioni, ammende e misure di sorveglianza riguardanti Paesi che non rispettano i parametri del deficit di bilancio e per i quali occorre predisporre piani dettagliati di riduzione del debito.

Si continua con l’istituzione del MES (2012, Meccanismo europeo di stabilità) affine a una banca per offrire assistenza finanziaria agli Stati con difficoltà di bilancio, ma alla quale gli stessi cercano di sottrarsi per evitare le condizioni a cui sarebbero costretti.

Nello stesso anno viene sottoscritto da quasi tutti gli Stati (25 su 27) il Trattato sulla stabilità (Fiscal Compact) nel quale sono prescritte regole ferree per ridurre il debito pubblico superiore al 60 per cento del PIL, e viene stabilito che le regole riguardanti il bilancio pubblico consolidato da prodursi almeno in pareggio, devono essere recepite dagli Stati sottoscrittori.

Dal 2015 poi è in corso, ma dovrebbe concludersi a breve, il programma della BCE denominato Quantitative Easing (alleggerimento quantitativo), attraverso il quale la Banca Centrale acquista titoli pubblici e privati e le banche private ricevono denaro a costo zero, senza tuttavia essere vincolate a finanziare attività produttive e mutui: insomma il QE non intacca minimamente il potere della finanza e la sua libertà di inventarsi e mercanteggiare tutti i derivati che vuole.

L’insieme di tali misure e di altre non menzionate sono veicolate con il binomio che ha attraversato questo decennio e ne esplicita la ratio: rigore e austerità.

E dopo le reazioni da queste suscitate , sempre più consistenti e diffuse, nei vari Stati e strati sociali, siamo arrivati al punto in cui due prospettive (salvo prossime e vicine smentite) sembrano contendersi il futuro immediato dell’Europa e delle sue Istituzioni: da una parte quella della continuità  di un percorso secondo le regole della concorrenza assoluta e del dominio incontrollato dei mercati finanziari, dall’altra quella di un ritorno al sovranismo degli Stati foriero di una possibile disintegrazione e regressione verso ulteriori e incontrollabili forme di conflitto tra gli stessi.

Lo scontro tra due “sovranità” che si raccordano

Non bisogna però pensare le due sovranità, tendenzialmente assolute, degli Stati e dei mercati, come inesorabilmente divaricanti: anzi le due sovranità finiscono in genere col raccordarsi, con l’intrecciarsi fino anche al sovrapporsi, tanto più che i leader sovranisti che si vanno incontrando e stringendo alleanze non mettono in discussione i principi dell’ordoliberismo.

E l’espressione secondo la quale “vengono prima gli italiani” o “vengono prima i francesi” o “i tedeschi” (che non hanno nemmeno bisogno di dirlo), e così via, contiene nella sua genericità una grossolana bugia e uno sprezzante rifiuto.

La bugia: tra gli italiani che vengono prima ci sono quelli che appartengono all’”establishment”, che sono diventati ricchissimi e potenti grazie ad alcune misure e richieste dell’UE, all’euro, alle privatizzazioni e al liberissimo mercato che anche i sovranisti difendono; lor signori potrebbero anche adattarsi, purché la loro sovranità non sia messa in discussione.

Il rifiuto: siamo davanti ad un arretramento, ancora una volta, di una delle conquiste civili più rilevanti dell’umanità: il riconoscimento della uguaglianza di tutti gli uomini. Per un individuo dilatato all’infinito forse non è nemmeno ipotizzabile che ci possa essere posto per tutti.

Il fatto è che manca davanti ad una sfida così decisiva la risposta politica democratica, progressista e di sinistra che, a partire da una rilettura critica, coinvolgente e partecipata del processo di integrazione nel suo accadimento reale, sia capace di progettare un ripensamento degli obiettivi di sviluppo economico e sociale delle popolazioni dell’Europa e di conseguenza delle istituzioni dell’UE. Obiettivi di sviluppo capaci di promuovere tutte le regioni dell’Unione, di accorciare le distanze inaccettabili tra i ceti sociali, di ripartire dalla centralità del lavoro e dei diritti sociali sono incompatibili con il sistema economico-finanziario dominante. Le ragioni di una politica di sviluppo economico-sociale che raggiunga tutti i territori e redistribuisca in modo più equo la ricchezza prodotta e le ragioni della democrazia sono tra l’altro intrecciate.

Ancora oggi, come in passato, due modi di sentire l’Europa

Tuttavia ancora ai nostri giorni, anche se con nuove modalità e caratteristiche, continuano a essere presenti due modi di vivere e sentire l’Europa: quello dei muri, innalzati sia dai cultori dell’establishment, che dai pubblicitari di un pericoloso riflusso identitario con il suo carico illusorio di vivere protetti e tra uguali, e quello dell’Associazionismo presente nei vari Stati con la sua riserva di pensiero critico della realtà e le sue pratiche di solidarietà sociale e rispetto dell’ambiente, o quello di programmi ed esperienze amministrativo- municipali  che sciolgono barriere e sperimentano la sicurezza dell’incontro e dell’accoglienza, o quello ancora  di risposte imprenditoriali collettive, ancorché locali, di maestranze davanti ad aziende che chiudono pur in assenza di crisi produttive.

Il fatto è che mentre il primo è ben rappresentato, sia pure in modo variegato, da forze politiche e istituzioni, il secondo rimane complessivamente dentro spazi sociali e percorsi amministrativi locali senza tradursi in movimento politico capace di attraversare gli Stati europei e di collegarsi e progettarsi e costruirsi con il respiro ideale, la pazienza democratica lo spessore etico-civile, la capacità di mobilitazione che la sfida richiede.  Sembrano giungere  alcuni segnali qua e là da alcuni Paesi, non emergono ancora gruppi dirigenti diffusi capaci di coinvolgere e incontrarsi per ripensare e irrobustire il processo di integrazione e riconsiderare la prospettiva della unificazione europea, presupposto indispensabile per la crescita civile di tutte le sue popolazioni, dei ceti sociali ,degli immigrati che la abitano già e di coloro che con una nuova capacità di governo potranno arrivare e di cui gli stessi europei  avranno bisogno.  A partire dall’urgenza dell’ora: salvare l’Europa da una possibile, drammatica disintegrazione.

I governi italiani in “linea” con l’Europa

Con riferimento poi al nostro Paese, i Governi Monti e Renzi hanno recepito  e tradotto in decisioni politiche le richieste di riforme strutturali dell’UE: hanno rivoluzionato il sistema pensionistico in modo così radicale da aver creato anche la categoria degli esodati, hanno continuato a ridurre i trasferimenti agli Enti locali, i finanziamenti alla sanità e alla scuola, ai servizi sociali e assistenziali, hanno ulteriormente e brutalmente precarizzato il lavoro, hanno perseverato nell’abbandono del mezzogiorno, hanno alimentato le disuguaglianze sociali.  E a partire dall’ottobre 2013, siamo quindi al sesto anno, i Governi che si sono succeduti hanno varato le leggi di stabilità riguardanti interventi di finanza pubblica per l’anno/i  successivo/i, secondo le procedure previste dai Regolamenti prima ricordati del “Six pack” e “Two pack”, che prevedono l’occhiuta sorveglianza sui bilanci dei Paesi dell’Eurozona da parte della CE, con la quale comunque hanno margini di contrattazione in rapporto alla congiuntura e alle previsioni più accreditate di banche, centri finanziari e agenzie di rating.

I Governi Renzi e Gentiloni hanno però cercato di addolcire la pillola del rigore, all’interno pur sempre delle ferree leggi dell’ordoliberismo: hanno concesso gli 80 euro a un’ampia fascia di lavoratori dipendenti, i 500 euro a tutti i diciottenni e agli insegnanti, i bonus d’annata e gli aiuti del REI ad una piccola parte delle famiglie più povere.  Il Governo Renzi non è comunque riuscito a stravolgere la Costituzione; il suo progetto di riforma dettato dalle richieste della società finanziaria JP Morgan, e teso a concentrare il potere nel Governo e nel partito che vince le elezioni, secondo la logica di una riforma elettorale poi bocciata dalla Consulta, è stato respinto dal popolo italiano.

L’ondata del “rifiuto”

Intanto anche in Italia è avanzata l’onda del rifiuto dell’Europa dei banchieri, della finanza, della burocrazia, dei patti e dei regolamenti, di quella Europa che obbediente al primato della “forte competitività” sacrifica sul suo altare fette di sovranità degli Stati e soprattutto dei popoli

Con la nuova Legislatura, dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso, si è formato il Governo anomalo 5 Stelle-Lega guidato da Conte, l’unico rivelatosi possibile, largamente estraneo ai poteri delle Istituzioni europee, e ambiguamente scettico nei loro confronti. Un Governo costituito da due forze politiche molto lontane tra di loro e la cui evoluzione è difficile prevedere.

La prima, i 5stelle, largamente votata  in tutte la Regioni e con un’altissima concentrazione al Sud, politicamente indefinibile per scelta del suo stesso gruppo dirigente, sembra rappresentare un  elettorato cresciuto dentro il dissolvimento, pratico e teorico, del valore della politica e di partiti fortemente caratterizzati, vuole interpretare richieste di lotta ai privilegi e alla corruzione, istanze di giustizia sociale e difesa di beni comuni che appartengono a una storica tradizione di sinistra, e rispondere a richieste, da parte di quel popolo immiserito, di almeno un po’ di assistenza, come avviene negli altri Paesi europei, dopo un decennio di austerità e di promesse di crescita e nello stesso tempo  di ripresa dell’occupazione e di  più equa redistribuzione della ricchezza,  mai minimamente mantenute.

La Lega ha il suo insediamento diffuso e forte nelle Regioni del Nord e  anche in alcune zone del centro, tende a rappresentare in modo particolare la borghesia delle libere professioni e di tutte le libere e private iniziative, e nello stesso tempo a irrigidire e aumentare le distanze tra le Regioni ricche del Nord e il Sud del Paese, utilizzando anche e distorcendo quanto previsto dall’art, 116 della Costituzione a proposito delle “ulteriori forme e condizioni di autonomia” che“possono essere attribuite” alle Regioni non a statuto speciale. La Lega pone un problema vero, quello del governo dell’emigrazione, dilatando però in modo artificioso e fuorviante la questione della sicurezza, e alimentando il conflitto, in modo altrettanto fuorviante, tra i precari e abbandonati, cittadini del nostro Paese, e quegli immigrati ancora più precari e rifiutati, tanto da essere considerati parte di una umanità clandestina. La Lega inoltre si presenta come una forza politica che si colloca dentro il sistema ordoliberista: lo vuole però compatibile con perimetri ben definiti dentro cui esercitare una sovranità statal-regionale a difesa di una libertà illimitata dell’iniziativa privata e del mercato, i cui protagonisti dentro quel perimetro risiedono e difendono il loro benessere.

Il Def del governo giallo-verde

Ora per la prima volta dal 2013 il nuovo Governo ha predisposto la legge di bilancio per gli anni successivi, e si accinge a seguirne la procedura di approvazione, in uno scontro senza precedenti con la CE, che sembra avere come punto di partenza irrinunciabile il rifiuto dei paletti imposti da parte della stessa, e la reticenza, perlomeno in alcuni suoi membri, a contrattare la percentuale di deficit all’interno della quale operare.

Ma al di là degli sviluppi che potrà avere tale conflitto sembra di vivere il passaggio da un recente passato all’insegna del “lo vuole l’Europa” ad un presente all’insegna del “lo vuole il Governo italiano”, con una approssimazione che permane e la difficoltà ad approfondire gli aspetti dello stato reale del Paese e delle sue Regioni e il loro rapporto con l’Unione.

Occorre ricordare comunque che c’è un elemento in genere colpevolmente sottaciuto nel dibattito pubblico sulle manovre di bilancio che in questo secondo decennio del secolo sono sempre più sottoposti ad una “sorveglianza rafforzata”e ad un “monitoraggio rafforzato”, in particolare nei confronti dell’Italia: pur all’interno di vincoli di bilancio allo stesso tempo imposti e contrattati, c’è sempre un margine di scelte politiche, economiche e sociali affidate al governo di ogni singolo Stato. Lo ha ricordato con una punta di sottile ironia lo stesso Presidente della CE Jean-Claude Juncker in un’intervista del 6 ottobre 2018 al quotidiano austriaco “Der Standard” allorchè, interpellato sulle misure previste nel Documento Economia e Finanza (DEF) del Governo italiano ha affermato che “non spetta alla Commissione dire che non puoi fare questo o quello. Per noi il fattore decisivo è la linea di fondo.  Spetta ai politici italiani trovare regole e misure che consentano all’Italia di rimanere entro gli obiettivi di bilancio concordati”.

Ora come hanno utilizzato tali margini i Governi Renzi e Gentiloni, quelli sottoposti alla “sorveglianza rafforzata”?

Istituti e centri di ricerca hanno continuato a fornire dati sostanzialmente omogenei: pur in presenza di segnali di ripresa dello sviluppo economico e dell’aumento del Pil la ricchezza è cresciuta insieme alla povertà. Insomma, ai più poveri non sono arrivate nemmeno le briciole.

Ora quali sono i primi segnali che arrivano dal Governo giallo-verde?  Certamente appaiono contraddittori. Eppure dentro queste contraddizioni va emergendo qualche elemento di discontinuità rispetto agli ultimi governi e alle politiche che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, nel segno di una nuova attenzione alla questione sociale.

E’ bastato qualche ritocco, con il Decreto “Dignità”, alle disposizioni del jobs act, nella direzione di qualche minima riduzione delle umiliazioni inflitte ai lavoratori dipendenti soprattutto del settore privato, per scatenare le reazioni scomposte dei poteri forti che hanno denunciato le timide misure in esso contenute come una trappola per bloccare la ripresa avviata e abbandonare il Paese ad un nuovo inesorabile declino.

E’ arrivato poi, con la predisposizione della legge di bilancio, un primo tentativo di risposta organica ai milioni di poveri assoluti presenti soprattutto al Sud, subito stroncato e deriso dai poteri economici e finanziari con al servizio i loro apparati tecnici, in uno con le opposizioni parlamentari: i quali, accompagnati dalle critiche feroci di gran parte della stampa e dalle prime reazioni critiche di uomini importanti delle istituzioni dell’UE, finiscono col presentarsi come un movimento di opinione di massa fideistico-acritica  nei confronti della forza risolutiva del mercato, tesa a nascondere e respingere una domanda di sopravvivenza più dignitosa che si va facendo massa critica nei confronti di questa nuova pervasiva dittatura.

Questo tentativo avrebbe bisogno del contributo, non episodico e, comunque avviato, di analisi critica e di eventuali, anche profondi correttivi da parte dell’Associazionismo libero e solidaristico diffuso, in particolare di quell’“Alleanza contro la povertà” costituita da qualche anno e composta da 35 organizzazioni di varia ispirazione, portatrici di conoscenze, di pratiche, di progetti che potrebbero consentire di raggiungere con maggiore efficacia un obiettivo minimo di solidarietà sociale e politica.

L’assenza di una risposta di sinistra

Perdura infine, particolarmente nel nostro Paese, l’assenza di una risposta politica democratica e di sinistra.  Si tratta di uno spazio politico desertificato ancora largamente abbandonato, e solo per qualche aspetto occupato dal movimento penta stellato. I tentativi di ricostituirlo in questi ultimi anni sono falliti. Né si intravedono gruppi dirigenti capaci di coinvolgere in modo credibile, libero da ansie di primogenitura e da estremismi ideologici ceti, associazioni, e cittadini per costruire un progetto minimo comune che assuma e risponda ad almeno tre grandi questioni del Paese che, per come sono state gestite, hanno contribuito enormemente a far crescere le disuguaglianze.

La questione fiscale, con riferimento sia alle imposte dirette (con al centro l’IRPEF), sia a quelle indirette (con al centro l’IVA), sia alla pratica della evasione e dell’elusione.  Come rispondere alla involuzione di un sistema che ha trasferito ricchezza dai ceti più poveri a quelli più agiati, disconoscendo il principio costituzionale “dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2), e l’indirizzo programmatici secondo il quale “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”?(art. 53)

La questione degli investimenti pubblici:  una storia di spostamento di risorse, seppur progressivamente ridotte, da settori e programmi che avrebbero potuto promuovere un certo benessere diffuso, o gestito in modo socialmente più equilibrato i sacrifici congiunturali, a settori che hanno privilegiato un ceto elitario, con ampia diffusione di pratiche corruttive, e che hanno riguardato, a mo’ di esempio finanziamenti di opere rivelatesi inutili, spese militari estranee al ripudio della guerra, salvataggi di banche.

La questione del debito pubblico; una vicenda quasi quarantennale, con i suoi meccanismi perversi, i privilegi e gli interessi nascosti nelle sue pieghe, le bugie propagandate, colpevolizzanti, nei confronti del lavoro dipendente, di gran parte del lavoro autonomo e di una grandissima parte di pensionati. Chi deve pagarlo? In che misura? Ci sono vie politiche efficaci di ricontrattazione?

L’auspicio di una prospettiva politica alternativa

Verso quale Paese stiamo andando? Verso quale Europa? E’ proprio difficile rispondere. Abbiamo forse bisogno di portare in giro la domanda e cercare insieme le risposte.

Ciò che preme ed è fortemente auspicabile è che si possa aprire quanto prima una prospettiva politica alternativa all’establishment e alla destra sovranista, entrambi funzionali complessivamente a mantenere fermo un modello di rapporti economici e di relazioni sociali fondati sulla “ gara” di ognuno contro tutti:  una prospettiva politica democratica, popolare e di sinistra, che colleghi e progressivamente unisca, senza esclusivismi, le varie espressioni nazionali e regionali presenti in Europa, che si pensano e si sentono dentro quell’universo di culture e di idealità etico-politiche che storicamente si sono affermate come “ di sinistra”, capaci di assumere un punto di vista critico nei confronti delle esperienze passate e della situazione presente.

Una prospettiva politica in grado di fermare il processo di disintegrazione in atto dell’UE, avendo come riferimento e ispirazione alcuni  momenti alti conosciuti dall’Europa, coevi alla guerra del ’39-‘45 e successivi ( il Manifesto di Ventotene, con la sua carica politica rivoluzionaria tesa a intrecciare un nuovo patto sociale con una nuova democrazia partecipativa, la Costituzione italiana del ’48 unitamente ad altre Costituzioni avanzate di altri Stati europei, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), nonché quelli conosciuti con la Istituzione dell’ONU ( la Carta di San Francisco del ’45 e la Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48).

Urge l’auspicio di nuovi gruppi dirigenti, credibili per i loro comportamenti e capaci per conoscenza e coraggio etico-politico, che si raccordino e promuovano una costruzione progressiva di un soggetto europeo in cui coinvolgere sia portatori disponibili di saperi nuovi e di quelli considerati più tradizionali, sia gruppi e cittadini appartenenti a quel mondo del volontariato, dell’associazionismo sindacale e socio-culturale, come dell’attivismo politico-ambientale e degli operatori impegnati nel recupero-valorizzazione delle risorse locali.

Si tratta di una prospettiva politica che deve ripensare e rivedere finalità e funzioni delle Istituzioni dell’UE a partire dal riconoscimento e dalla promozione della sovranità dei popoli e dal suo esercizio nel segno del primato della politica sull’economia e sulla finanza, considerato come democrazia in espansione.

Si tratta di una prospettiva politica che deve progettare settori e spazi progressivi di integrazione e insieme di valorizzazione delle tante e diverse ricchezze presenti nel territorio europeo; solo all’interno di tale rinnovato percorso potrà essere possibile affrontare la drammatica questione dell’immigrazione, nel segno e nella costruzione di una politica estera comune, e di una gestione comune dell’accoglienza.

Si tratta di una prospettiva politica che con coraggio deve bloccare il gioco della “finanza distruttiva”, la quale mentre sposta e accumula e accentra la ricchezza, distribuisce miseria. E alla regolamentazione e al controllo corrispondente delle istituzioni finanziarie deve accompagnare la responsabilità di assumere la guida politica dell’economia, senza nostalgie e rispolveri dirigisti e senza abdicazioni in nome dell’autogoverno dei mercati.

La Carta europea dei diritti, unitamente a Statuti e Carte degli Stati europei (a partire dalla Costituzione italiana) compongono un quadro di riferimento chiaro e fondamentale.  Basta allo scopo solo qualche esempio:

– la libera iniziativa privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale” e deve essere “indirizzata e coordinata a fini sociali (Cost. Ital., art. 41);

– la proprietà privata deve essere regolata dalla legge “allo scopo di assicurarne la funzione sociale” (Cost. Ital., art. 42);

– ci sono diritti dei lavoratori che devono essere esercitati dentro l’impresa (Carta Europea, art. 27)

– i lavoratori vanno tutelati contro il licenziamento ingiustificato (Carta Europea, art.30);

– ci sono beni fuori mercato come il corpo umano, l’istruzione, il collocamento (Carta Europea, articoli 3, 14, 29),

– la lotta contro l’esclusione sociale e la povertà costituisce una priorità (Carta Europea, art. 34)

A metà degli anni ’50 del secolo scorso un grande teologo e filosofo tedesco, il gesuita Erich Przywara, mentre era in corso il dibattito sul se e come avviare il percorso di integrazione europea, e ben prima dei Trattati di Roma, così indicava ispirazioni e orientamenti possibili, divaricanti, dei decenni futuri, il tempo che stiamo vivendo: “Per una nuova Europa politica vale un’alternativa stretta. O le nazioni, che per i loro interessi si sono separate dall’unica città dell’occidente, rinnovano questa unica città con un’autentica conversione, lasciando cadere questi interessi per un servizio all’unica città e assumendo un corrispondente modo di pensare a tale unica città.  Oppure tali nazioni negozieranno, come mercanti, un equilibrio in base alla convergenza di interessi differenti, in maniera tale che quest’alleanza di mercato sarà l’unica “Città dell’occidente” con sempre nuove contrattazioni. Questo significa però intender la città come un “mercato”, nel quale astuti mercanti cercano di imbrogliarsi gli uni gli altri, così che l’ansia del profitto diventerebbe il vero contenuto della politica, il vero servizio della città e il vero modo di pensare alla città nella quale coloro che hanno interessi di mercato si incontrano secondo la logica dell’homo homini lupus.”

Brindisi, novembre 2018

*Riflessione-studio del prof Fortunato Sconosciuto

e degli amici di “A Sinistra” Movimento antiliberista e pacifista

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