Morire nei campi. (Michela Almiento e Antonio Ligorio)

Un’altra morte nei campi. La terza nel giro di pochi giorni,

dopo il lavoratore morto a Nardò, la lavoratrice morta ad Andria, purtroppo  è stato un  lavoratore tunisino residente a Fasano a morire mentre lavorava nelle campagne di Polignano. Ha il sapore di un bollettino di guerra e invece accade nelle nostre terre pugliesi. Quali le cause? Bisognerà aspettare l’esito dell’autopsia per sapere qualcosa di più rispetto alle prime notizie che parlano di cause naturali. Ma il punto è: cosa c’è di naturale nelle condizioni di lavoro che accomunano comunque questi lavoratori? Di certo l’estate torrida di quest’anno incide fortemente nel peggiorare tali condizioni, ma il clima può essere considerato una variabile indipendente nello stabilire per quante ore a determinate temperature si può continuare a svolgere il faticoso lavoro agricolo? Il bracciante di Fasano aveva continuato per otto ore a caricare cassette d’uva, per poi accasciarsi e morire. Lascia la moglie e quattro figli.

La durata di un turno di lavoro nei campi, d’estate, quando finisce di essere regolare e diventa, invece, un rischio? E’ una  domanda legittima? o considerato che parliamo di lavoro agricolo, spesso sottopagato e condizionato da lavoro nero e caporalato, è solo superflua?

Loro, i braccianti, ti rispondono che sono costretti ad accettare condizioni di lavoro massacranti altrimenti non lavorano, e, purtroppo,  per la fame di lavoro si  rendono spesso “invisibili”, costretti ad accettare paghe  misere a fronte di intere giornate di lavoro. Come  è successo a Paola, morta ad Andria, che nonostante accusasse  dolore al collo non poteva permettersi di perdere la giornata. Ha lasciato tre figli, tanti ne aveva anche il lavoratore morto a Nardò. Tre famiglie distrutte, e non c’è differenza che  si tratti di lavoratori italiani o stranieri: la fatica, il sudore e le condizioni di sfruttamento non hanno nazionalità, e anche  la morte accomuna.  In Puglia sono quarantamila i braccianti che quotidianamente lavorano a rischio di morte “per cause  naturali”. Tra questi le tante braccianti dell’interland brindisino che, all’alba, si recano nelle campagne del metapontino e del barese, per lavorare per ore e ore anche sotto un tendone a temperature insopportabili.

E il Sindacato che fa? Ha fatto tanto per incidere anche sulle norme, nazionali e regionali:  riconoscimento del caporalato come reato penale e priorità di assunzione con l’inserimento nelle liste anagrafiche pubbliche. E denuncia, quotidianamente, cercando di far emergere le irregolarità.  Come FLAI e come CGIL    evidenziamo, continuamente,  che le storture di tutto un sistema, anche come mercato agricolo sempre più sottomesso a norme europee penalizzanti per le nostre produzioni, non possono essere l’alibi per far pagare il prezzo più alto sempre ai più deboli, cioè ai lavoratori. Eppure non basta.

E le Istituzioni che fanno? In giornate come queste, siamo solo tutti colpevoli: non si può continuare a morire di lavoro!

Michela Almiento (Segretario Generale CGIL Brindisi)   
Antonio Ligorio (Segretario Generale FLAI CGIL Brindisi)

 

 

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