Azzurri … a zappare. (Homo videns)
Non vi sorprenda che Homo Videns si soffermi oggi su un argomento apparentemente lontano dai suoi interessi. Il fatto è che oggi, la mentalità dell’homo videns, è costruita per gran parte sullo spettacolo, e lo sport costituisce circa la metà dello spettacolo televisivo. Per cui, lo sport-spettacolo costituisce la nostra forma mentis almeno per metà.
E allora, parliamo del mondiale di calcio!
Partiamo dalla Costa Rica. Un paese di quattro milioni di abitanti, quanto la città di Roma. L'economia della Costa Rica si basa essenzialmente sull'agricoltura. Le principali colture sono il caffé e le banane. La Costa Rica è stato il primo Paese dell'America Centrale a coltivare caffé e banane e questi due prodotti costituiscono ancora la voce più consistente delle sue esportazioni. Il 18 % della popolazione versa nello stato di povertà.
All’inizio del Mondiale, dopo la vittoria dell’Italia sull’Inghilterra, ho guardato la partita che il Costarica giocò contro l’Uruguay, una partita di quelle memorabili. I “campesiños” costaricani misero in seria difficoltà i campioni uruguagi. Anche se non capisco niente di calcio, capii subito che quei ragazzi del Costarica meritavano attenzione e, soprattutto, rispetto.
Non vi nascondo che, quando si è giocata la partita Italia-Costarica, mi ha colpito che i costaricani fossero così compìti e ordinati, quasi come i ragazzi italiani degli anni sessanta.
Invece, fra gli azzurri c’era di tutto. Uno con una scarpa rosa e l’altra verde. Un altro le aveva tutte e due gialle. Un altro con la cresta, altri con la barba da contestatore anarchico.
Come se il loro valore stesse nelle chiome, nel colore delle scarpe... Insomma, un insieme di figuri variopinti. Ecco, non si poteva sbagliare: questi sono “italiani”.
Alla fine del primo tempo ho spento il televisore, non ne potevo più di assistere ad una defaillance così penosa dei nostri calciatori. Vedevo lo spettro dell’Italietta già vista 4 anni fa in Sudafrica, una squadra rinunciataria, quasi scioperante. Sembravano che stessero a fare riscaldamento. «Ma che siete andati a fare in Brasile?» -mi son detto- e ho spento.
Le notizie successive mi hanno informato che avevamo perduto. E, pochi minuti dopo la sconfitta, tutti gli azzurri a fare interviste, a fare dichiarazioni alla stampa. Uno dava la colpa al caldo; un altro la dava all’arbitro. Poi ho letto che un certo Thiago Motta ha dichiarato che il Costarica non era neanche una squadra di serie B, ha vinto perché ha avuto [scusate il termine] “culo”. Non si è accorto, il Motta, che si è autosqualificato; ha ammesso candidamente di aver perso contro una squadra di serie B, lui con tutta la squadra che è il meglio che abbiamo in Italia!
Ora, l’accostamento fra Motta ed il prefetto di Perugia non sembri uno sberleffo; è che di fronte alla TV si diventa tutti un po’ cretini, si perde il senso del limite. Ma come -mi domando- un atleta perde il senso del limite? Un prefetto perde il senso del limite? Qui sta accedendo qualcosa che va oltre la figuraccia che la Nazionale ha fatto in Brasile.
Non voglio entrare nel merito del prefetto suddetto. Potrebbe essere solo un caso sporadico. O forse, è anche quello un segno dei tempi? Ma il calcio sì, questo mi intriga.
E veniamo all’Uruguay. Un paese di 3 milioni e mezzo di abitanti. L’Uruguay è ancora più povero della Costa Rica. Il 27 % della popolazione versa nello stato di povertà. Con un’economia basata in buona parte ancora sull'agricoltura. Trovo, su internet, che le maggiori colture sono quelle dei cereali, frumento, riso, mais, orzo e sorgo. Le altre coltivazioni sono quelle di patate, vite, agrumi e in generale frutta. E torna ancora lei, l’agricoltura. Non può essere un caso…
Con l’Uruguay abbiamo fatto una figura, se possibile, ancora peggiore che con la Costa Rica. A cominciare dai falli di mano che noi quindicenni (un lontano ricordo) facevamo negli impacciati controlli del pallone. Altro che serie B!
Nel complesso, fra Costa Rica e Uruguay abbiamo fatto due tiri in porta; due tiri, in 180 minuti! Roba da non credere. E ora qualcuno vorrebbe dare la colpa all’arbitro.
Da persona corretta, comunque, Prandelli si è assunto tutte le sue responsabilità, pur non essendo il solo responsabile della figuraccia. E Abete lo ha seguito: se per la seconda volta di fila l’Italia esce al primo turno di un mondiale, è allarme rosso per il calcio italiano. Gli esperti parlano delle colpe dei grandi Club, che hanno ucciso i vivai italiani, attingendo sempre più dall’estero. Parlano dei troppi turni giocati in una settimana, ecc. Saranno certamente argomenti da approfondire.
Ma mi sembra che ci sia qualcosa di più. Perché la figuraccia del Brasile mette in evidenza la crisi dello sport. Che cosa è lo sport? È l’abitudine a capire i propri limiti, ad acquisire la forza della modestia, a capire quindi la diversità di un individuo con un altro, a rispettarlo. E lo sport agonistico non è la sopraffazione dell’avversario, ma è tecnica, intelligenza, tenacia, sofferenza, fatica. E, nel calcio, è coralità, affiatamento con i compagni di squadra. Una volta, sulla maglietta, i calciatori avevano solo un numero, quello del loro ruolo, proprio per marcare il senso di squadra. Oggi hanno ben stampato il loro nome, ad indicare la prevalenza del loro “io” sul gioco della squadra.
Una volta, era così. Il Vero Spirito Sportivo era così. Quello di De Coubertain, l’inventore delle moderne Olimpiadi. Fino a pochi decenni fà, era così. Ora non più. Nel calcio questo è diventato lampante. È chiaro anche agli inesperti, come me, che il calcio oggi non è più sport, è diventato solo un fatto di spettacolo, un affare economico, come ben sanno le aziende che, scioccamente, avevano investito negli spot pubblicitari inneggianti a Prandelli e alla Nazionale.
Oggi il calcio non ha più niente del vero sport. Per noi, per i calciatori italiani, non per i “campesiños” costaricani. Non per quelli uruguaiani. E allora, Azzurri, a zappare!
E, forse, molti italiani dovremmo tornare a zappare (mi ci metto anch’io), a cominciare dai responsabili dello sfacelo.
Homo Videns